L’infanzia del nostro tempo

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Nei giorni scorsi ho passato parecchio tempo in alcuni dei musei che amo di più: l’Archeologico di Atene, il Museo dell’Acropoli, quello del Ceramico. C’erano i pezzi di sempre, pezzi a cui negli anni mi sono abituato, e di cui spesso mi accorgo che fatico a cogliere la potenza. Ma qualcosa succede sempre. E stavolta è successo di fronte all’immagine di un bimbo che beve vino alle feste dionisiache delle Antesterie. Chiunque studi il mondo antico sa delle grandi bevute, delle gare di vino e dell’entusiasmo che prendeva i partecipanti alla festa di fine febbraio quando, aspettando la primavera, si assaggiava il vino dell’anno precedente, appena aperto. Si sa che anche i bambini partecipavano e che dai tre anni in poi era consentito brindare. Nessuna sorpresa, dunque. Ma chissà quali associazioni mentali sono scattate. Mi sono ricordato di quando a tavola per celebrare compleanni o ricorrenze, mio padre versava un dito di vino rosso nel mio bicchiere e mi invitava a brindare. Un gesto serio, adulto, di cui tutti sentivamo l’enorme bellezza. Un gesto che oggi è caduto in disuso. Che un bambino beva è considerata cosa insana e intollerabile. I genitori rischiano grosso. La morale dei nostri giorni non prevede grandi autonomie, in questo senso. E così pensando, mi sono accorto del piccolo animale che il bimbo portava con sé.

Per anni, insensibilmente, ho osservato bassorilievi, vasi, rappresentazioni della più varia natura senza rendermi conto che gli animali da compagnia rappresentano una dimensione di pressoché esclusivo dominio fanciullesco. Uccellini, cagnolini, scimmiette appaiono spesso assieme ai bambini. Molto raramente assieme agli adulti e in genere in situazioni precise (come il cane assieme al cacciatore) che rivelano la distanza dalla situazione abituale invece riservata al bambino. C’è poco da studiare per definire i motivi di tanta lontananza dai nostri tempi. Ben altro era il rapporto con il mondo animale, allora. Ma non voglio tornare per l’ennesima volta sui deliri dei nostri tempi circa l’animale in forma Walt Disney a cui attribuiamo ormai caratteristiche del tutto umane e razionali (svalutandone dunque l’identità, la sua animalità, la sua alterità rispetto all’animale dotato di logos che noi invece siamo). Mi veniva in mente piuttosto che il dominio di quelli che ormai chiamiamo quasi abitualmente pets (inserire il termine su un motore di ricerca per scendere all’inferno) nell’Occidente opulento ha a che fare con la nostra profonda infantilizzazione. Lontani (lontani?) da guerre, risparmiati da carestie, immuni da epidemie, abbiamo altro a cui pensare. Non ci confrontiamo più con i grandi temi di qualsiasi esistenza. Non dialoghiamo e non ci critichiamo. Cerchiamo semmai il conforto di chi non può rispondere. Liberiamo la nostra immaginazione. Cagnolini e gattini (ma niente gattini nella Grecia antica! Solo in Egitto) fanno per noi.

Sono poi capitato a un festival di cortometraggi politici, l’ i.P.A.S. Film Festival (indipendent Political Activism Short Film Festival). Fra le pellicole proiettate il film francese The Age of Reason / L’Âge de raison (2015). Non che fosse fra i miei preferiti, ma il racconto della crisi d’identità del mondo infantile ai nostri tempi mi suonava come un allarme preciso. Bambini stretti nella morsa di decisioni troppo più grandi di loro e al tempo stesso responsabilità paradossalmente fin troppo svalutate. Che sta succedendo? Alcuni la chiamano ridendo bambinocrazia. Perché il mondo adulto infantilizzato difende a spada tratta un mondo infantile che è ridicolmente e falsamente reso invece adulto. Sappiamo tutti che negli ultimi anni a velocità vertiginose sono cambiate le prospettive del mondo infantile (una libertà fisica sempre più ridotta a fronte dell’infinita libertà che concede internet) e al tempo stesso il mondo adulto ha coniugato l’iperprotettività con la concessione di un potere inaudito fino a pochi anni fa. Aerei, treni, ristoranti sono luoghi sempre più paradigmatici per apprezzare il cambiamento. Non mi diffonderò in descrizioni che rischiano di apparire appunto infantili. Mi limito a segnalare le polemiche che generano i casi sempre più frequenti di locali detti “childfree” o di aree “no kids” (usare l’italiano no?) come delle carrozze silenziose nei treni (ancora nulla sugli aerei?). Che sta succedendo? Adulti infantilizzati. Infanti adultizzati. Responsabilità sempre meno chiare. Una sera sono entrato nella mia enoteca romana e il bancone era occupato da bambini che disegnavano. Uno dei frequentatori abituali ridendo ha detto: “E se noi domani veniamo al parco e vi occupiamo le altalene?” Bella battuta, ancora la ripeto ghignando, ovvio. Ma più che una battuta raccontava la realtà. Cerchiamo conforto in animali da compagnia, rifiutiamo il dolore e l’ombra della difficoltà. Attribuiamo dunque ai bambini cui quella dimensione invece dovrebbe essere relegata la libertà di entrare nella nostra dimensione.

Ma la diagnosi non ha a che fare con la cura. Soprattutto da noi, in Italia, la parola d’ordine è: lottare contro la gerontocrazia. Troppi vecchi al potere. Troppi vecchi in giro a dire la loro. Giovani, giovani, giovani. Li vogliamo giovani, belli, senza rughe, sorridenti, occhi inebetiti da una idiota prospettiva di felicità eterna. Via i limiti di età. E chissà perché esistevano. Chissà perché si è sempre pensato che servissero gli anni e le esperienze per maturare, soffrire, capire qualcosa in più. Ma no. Niente anni. Niente esperienza. Niente saggezza. Niente conoscenza. Giovani. Li vogliamo giovani. Per parlare con loro come con cagnolini e gattini. Per essere eternamente felici di una felicità senza invecchiamento e senza morte.

Ecco perché alcuni invece continuano a amare i vecchi. Amano parlare con i vecchi. Amano ascoltarli. E preferiscono vedere animali liberi. Semmai cacciarli. Mangiarli, sì, mangiarli. E – cosa più bella e più sacra in assoluto – vedere l’esemplare massimo degli animali non dotati di logos, il vero e unico re, il grande toro. Il toro che da sempre rappresenta l’altro da sé dell’umano. Il toro nell’arena. Nella sua lotta immane e sublime. Che si trasforma in arte.

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Matteo Nucci (Roma, 1970) è scrittore, oltre che aficionado. Negli anni Novanta a El Espinar, durante una notte interminabile, vide vaquillas correre nella plaza. Era l'inizio della febbre tauromachica

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