“Tifo per il toro”

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Foto Prensa Libre

“Tifo per il toro”. Quante volte, noi appassionati, abbiamo sentito ripetere questa frase del tutto priva di fondamento?

Tifo per il toro. Voglio che il toro vinca. Spero che uccida o senonaltro colpisca il torero. Ben gli sta a chi vuole uccidere l’animale. Bene per il toro conquistarsi la libertà uccidendo il suo avversario.

Frasi vuote. Stereotipate. Prive di fondamento appunto. Innanzitutto perché la corsa dei tori non è una gara. Nessun vincitore nell’arena. Si tratta semmai di uno spettacolo, di una manifestazione d’arte che ha a che fare con il rito e forse, parzialmente, con il sacrificio. Rappresentazione di una tragedia eucaristica, dove l’eucaristia non è simbolica.

Eppoi perché, comunque si voglia definire la corrida, se nulla in essa vi è della gara, dello sport, neppure alcunché di gladiatorio può essere visto nel suo sfondo. Non sopravvive l’animale che uccide il torero. Viene semplicemente ucciso dal torero che segue. La salvezza dell’animale è possibile, sì, ma certo non quando il torero muore. Bensì quando toro e torero si uniscono perfettamente e si mostrano i caratteri magnifici dell’animale tali da permettergli di tornare nell’allevamento a farsi semental, ossia stallone, toro da monta, riproduttore, padre di figli che si spera siano altrettanto nobili, fieri, selvaggi come si è rivelato l’esemplare nell’arena. È l’indulto. L’unica salvezza possibile e democraticamente elargita nell’universo degli animali da allevamento.

“Tifo per il toro” in effetti lo si può dire eccome. In forma lievemente desacralizzante, quando si intende dire – e lo diciamo noi appassionati – che il toro è il dio dell’arena, che è per il toro che si va ai tori (eh già!) e che senza toro non esiste corrida. 

Eppure la frase resta un totem antitaurino. Per nulla privo di conseguenze, peraltro, visto che da quelle rivendicazioni stereotipate e vuote discende costantemente un’aberrazione spaventosa e completamente antiumanistica, in linea con lo pseudoanimalismo dei nostri tempi. Ossia che la morte di un torero nell’arena sia evento da festeggiare.

Per fortuna, fino a poco più di un anno fa, per quasi trent’anni, avevamo potuto semplicemente disprezzare frasi vuote, irreali e del tutto ipotetiche. Dai tempi della morte del Yiyo nella plaza di Colmenar Viejo il 30 agosto 1985 nessun matador de toros era più morto nell’arena. Le frequenti notizie di incidenti e cornate come quelle più rare di incidenti mortali occorsi a uomini della cuadrilla, poiché meno gridate dalla stampa ignorante, passavano sotto silenzio negli ambienti antitaurini e poche voci si levavano a festeggiare contusioni, ospedali, ferite e quant’altro. Fino al 9 luglio 2016, quando la morte di Víctor Barrio ha spalancato le porte all’aberrazione di odio su internet. Grida di giubilo, scherno, insulti deliranti. E tutta la macchina più insana di chi ha perso definitivamente il senso dell’appartenenza al genere umano, quello degli animali dotati di logos, animali razionali perché parlanti. Un fenomeno che si è ripetuto pochi mesi fa quando Iván Fandiño è stato incornato a morte nell’arena di Aire-sur-l’Adour.

In questi giorni arriva una prima sentenza che riporta ordine dopo mesi di indignazione. Una consigliera del comune di Catrroja (Valencia) è stata condannata a pagare una multa (7000 euro – “indennità” alla famiglia di Barrio) e a pubblicare le ragioni della sentenza sullo stesso social network in cui aveva divulgato la sua manifestazione di odio. La corte di Sepúlveda (Segovia) ha discusso la denuncia presentata dalla Fundación del Toro de Lidia in rappresentanza della famiglia di Víctor Barrio ritenendo la donna colpevole. Il Diritto “non equipara, né considera di uguale valore” la vita di un essere umano e quella di un animale, mentre l’uso della parola “assassino” in senso “erroneo e dispregiativo ” per riferirsi a una persona che esercita una professione “lecita e degna” implica nelle parole della consigliera la presenza di un “attentato contro l’onore”.

La sentenza, in cui si sottolinea l’estraneità da qualsiasi presa di posizione circa la tauromachia, non risarcisce nessuno, né moralmente né certo economicamente per il dolore provocato. Ma dà un primo segnale. Stabilisce dei paletti di umanità che fino a pochi anni fa sarebbe parso grottesco invocare, ma che sono diventati necessari e sacrosanti ai tempi in cui dilaga il delirio antispecista.

 

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Matteo Nucci (Roma, 1970) è scrittore, oltre che aficionado. Negli anni Novanta a El Espinar, durante una notte interminabile, vide vaquillas correre nella plaza. Era l'inizio della febbre tauromachica

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