Chi ama il rito tauromachico sa che esso mette in scena i principali eventi che l’anima umana è destinata a affrontare fino alla morte in tutte le loro sfumature e contraddizioni. Verità e menzogna sono le questioni decisive per chi viaggia nell’anima cercando di sondarne i confini. Il tradimento è una delle più dure prove da affrontare in questa ricerca. Ma come la tauromachia racconti il tradimento e ne sveli gli aspetti più interessanti sarebbe difficile dirlo senza l’aiuto degli antichi. I classici greci sono sempre necessari a capire la tauromachia, e imprescindibili per il viaggio dell’anima.
Dobbiamo allora cominciare da lontano. Esattamente 2435 anni fa. Nel 412 a. C. infatti, mentre la guerra del Peloponneso dilaniava Atene, Euripide mise in scena una tragedia destinata a far discutere. È arrivata in versione integrale fino a noi e s’intitola Elena. Racconta la storia della bellissima regina di Sparta che tradì suo marito Menelao e diede origine alla guerra di Troia. La storia famosa che tutti conosciamo però nella tragedia viene completamente trasformata.
Ispirandosi a un racconto di Erodoto e a una celebre lirica di Stesicoro, Euripide sostenne che Elena non aveva mai davvero tradito Menelao. Si era, sì, lasciata prendere dal principe troiano Paride, ma poi, quando le navi troiane dal Peloponneso avevano fatto sosta in Egitto, si era fermata lì, non era più salita a bordo e durante i dieci anni di guerra era rimasta ospite del Re Proteo. Il motivo per cui gli Achei avevano ugualmente fatto guerra ai Troiani è spiegato quindi con un artificio che al lettore di Erodoto e Euripide appare troppo fantasioso, in effetti fantastico, del tutto irreale. Sulla nave di Paride infatti sarebbe salita un’immagine di Elena, un eidolon, ossia un fantasma, un doppio perfetto della donna, un’aerea copia. Non sappiamo come l’aveva messa in versi Stesicoro nella sua Palinodia (purtroppo perduta tranne che per i primi tre versi), ma comunque fosse, non ci diamo spiegazioni. L’artificio letterario non ci soddisfa. Preferiamo Omero e la sua storia piena di verità umana e ci pare invece che Euripide voglia prenderci in giro proprio come parve al più grande commediografo dell’antichità che in quel giorno del 412 sedeva in teatro e se ne andò disgustato, parlando sarcastico della “nuova Elena” che si era inventato il tragico da lui disprezzato.
Eppure, in quella enigmatica versione del mito c’è una verità tanto profonda quanto lieve, impalpabile, complessa e sfuggente che davvero riesce a dirci molto circa l’essenza del tradimento. Purtroppo per capirla ci vuole molta vita, molta esperienza, molta conoscenza del tradimento che nessuno si augura e che tuttavia è quasi impossibile non fare se si vuole esplorare l’animo umano. Si tratta peraltro di un’esperienza passiva, per nulla volontaria, di cui all’inizio è difficile che si voglia trovare un senso. Le cose tuttavia sono destinate a cambiare irrimediabilmente, mentre si cresce. Quando, bambini, veniamo traditi da un amico, ci allontaniamo soffrendo, ma certo non troviamo spiegazioni e non ne cerchiamo. Quando invece questo ci capita mentre abbandoniamo anche l’adolescenza, che il tradimento sia quello di un’amicizia o di un amore, siamo via via costretti a farci i conti, al punto che può arrivare il momento di cogliere l’essenza di ciò che abbiamo vissuto. Allora la versione che Euripide mise in scena del grande tradimento antico può rivelarsi illuminante.
Stando a Omero, infatti, Elena, dopo aver perso la testa per Paride, capì in fretta con chi aveva a che fare e cominciò a sognare la casa che aveva lasciato e l’uomo retto, autentico e gentile con cui si era sposata. Il vigliacco amante dei piaceri afrodisiaci si rivelava per quello che era, dunque il rimorso cominciò a roderla dentro e non sappiamo come andò fra lei e Menelao quando gli Achei presero Troia, visto che i poemi non raccontano quella parte di storia, però sappiamo che, quando rientrarono a Sparta e ripresero il trono, Elena e Menelao formarono una coppia forte, solida, piena di amore e riconoscimento reciproco. La scena è raccontata nel momento in cui, sulle tracce di suo padre, Telemaco arriva a Sparta e si trova davanti i due sposi: è una delle perle dei poemi. Ci dice molto circa la forza dell’amore ricomposto. D’altronde, seguendo certe indicazioni che ci sono state trasmesse sul seguito della storia, sappiamo che a Sparta il santuario dei due coniugi divenne un luogo perfetto per celebrare l’amore coniugale.
Cosa era successo dunque? La versione di Stesicoro-Erodoto-Euripide ci aiuta a capirlo. Negli anni in cui Menelao lottava per conquistare Sparta e riprendere la moglie (probabilmente per giustiziarla) l’idea che lui, come i suoi compagni, si erano fatti della sposa era molto lontana dalla verità. La Elena che essi immaginavano – traditrice, incapace di sensi di colpa, felice del suo presente, sdegnosa, miserevole – non era affatto corrispondente al vero. Non era quella la donna che si trovava lì. A Troia non c’era affatto la Elena per cui essi combattevano. Quella Elena forse si era fermata in Egitto, poco dopo la fuga o il rapimento, e ciò per cui gli Achei combatterono fu sostanzialmente un’illusione. Si dice che è spesso una semplice e vuota illusione a spingere gli uomini alla guerra. E questa è un’altra storia. Se noi restiamo all’essenza del tradimento, però, ciò che questo mito ci racconta è anche altro.
I tradimenti infatti raramente finiscono come quello raccontato da Omero e rielaborato da Euripide. E tuttavia anche l’opposta “soluzione” del dramma trova nell’eidolon di Euripide un geniale grimaldello ermeneutico. Accade infatti spessissimo che il traditore rifiuti in tutti i modi di ammettere le proprie colpe. Non si tratta di negare l’evidenza, come racconta una certa vulgata. Ma di sottrarsi a qualsiasi riconoscimento, a qualsiasi confronto, magari senza dolo, epperò con una pervicacia che può concedere solo un carattere spregiudicato o incapace di fare i conti con la realtà. Quando capita qualcosa del genere, ci si trova spaesati, incapaci di darsi pace, anche perché è comune un atteggiamento rivendicatorio, quasi persecutorio da parte di chi in realtà ha tradito. Come se fosse lui a dover essere compatito. Un paradosso atroce e insopportabile da cui non esiste via di uscita. Di solito solo il tempo mette a posto le cose. E tuttavia, una profonda consapevolezza può essere determinante. Ecco allora che l’altra versione del mito di Elena ci viene in soccorso e ci apre una prospettiva illuminante.
Questa volta l’eidolon, il fantasma, la copia aerea della persona è quella a cui avevamo creduto prima. L’amico o l’amore con cui avevamo condiviso tutto e a cui avevamo dato la nostra completa fiducia non era affatto quel che noi credevamo. La realtà si rivela molto lontana da quella che avevamo vissuto durante l’amore o l’amicizia. È solo quella che abbiamo sotto gli occhi. Il nostro traditore, chi ha calpestato la nostra fiducia e continua a farlo e si prende gioco di noi , in lui è la verità della persona con cui avevamo a che fare. Prima c’era solo un fantasma, un’immagine, un illusione. Avevamo creduto in una persona che in effetti non esisteva, era una nostra proiezione, era un’idea che noi vedevamo e che infine si è sgonfiata come la finta Elena di Stesicoro, Erodoto e Euripide, solo che stavolta a noi è rimasta invece una realtà da cui vogliamo soltanto fuggire.
Una delle opere che meglio racconta questo aspetto del tradimento è forse quel capolavoro di Sergio Leone su cui è da poco uscito un libro molto bello di Pietro Negri Scaglione: C’era una volta in America. Chi non conosce questa inarrivabile opera ha la fortuna di fare per la prima volta un’esperienza estetica travolgente; noi che invece lo abbiamo visto e rivisto non possiamo che rivederlo ancora. Inutile tentare di dirne qualcosa. In questa Recherche criminale, il grande tradimento rivela al protagonista, Noodles, che l’amico in cui aveva creduto e a cui ha dato tutto, non era che una sua illusione, un fantasma, un doppio esatto dell’uomo che invece si trova infine di fronte. Non c’è spiegazione più emblematica e chiarificatrice di quella che Noodles usa rispondendo all’uomo che lo ha tradito e troppo tardi chiede un perdono che non è neppure tale perché è in effetti una richiesta di essere giustiziato e di farla finita (richiesta a cui, se le cose gli fossero andate bene, non sarebbe mai arrivato). Noodles, dopo aver rivisto in un flashback il ragazzino con cui era cresciuto e essersi commosso per un fantasma ormai scomparso, si allontana mormorando così: “Vede signor Senatore, anch’io ho una mia storia, un po’ più semplice della sua. Molti anni fa avevo un amico, un caro amico. Lo denunciai per salvargli la vita. Invece fu ucciso. Volle farsi uccidere. Era una grande amicizia. Andò male a lui e andò male anche a me. Buonanotte signor Bailey”.
Volle farsi uccidere. Quell’amico è morto molti anni fa. Il traditore ha preso il suo posto. E ha potuto farlo perché la persona che c’era prima era già sempre stata un’illusione. Era il Max che ogni volta lo portava lontano dal suo amore, tanto per dirne una. E che sempre era stato diverso da quello che Noodles aveva immaginato.
Il film, con un epilogo ambiguo che ha sempre spinto gli appassionati alle più complesse interpretazioni sottolinea la visione e l’illusione, il fantasma che noi stessi creiamo nell’immagine celebre della fumeria d’oppio che apriva il film e una risata liberatoria. Ma di quale risata dispone l’uomo che è stato tradito se non la vendetta contro il fantasma che lo ha illuso? Ecco la perla che ci dà Euripide, che ci ripropone Sergio Leone e che la tauromachia mostra in continuazione, nella profondità e nel mistero del suo rito.
Chi scopre che dietro al suo amico o al suo amore non c’era nulla, può vendicarsi solo uccidendo quell’eidolon. Non si macchia di nessun crimine, certo, ma fa proprio ciò che è stato chiamato a fare, ovvero quel che per il traditore si rivela ferita drammatica, insopportabile, impossibile da rimarginare. Noodles non uccide il Senatore Baileys. Il Senatore non ha colpe. È il suo amico Max che egli uccide, ripetendone le morte che dunque egli stesso determina per sempre nell’amico che non fu mai tale. Il Senatore allora si trova solo davanti a se stesso. Solo davanti alla persona che non era mai stato. Solo di fronte al suo tradimento.
Così, per qualsiasi Elena che, al contrario di quella classica, riveli di essere stata un’illusione, non c’è altra vendetta che l’omicidio della sua immagine, ossia la morte di quel che si era visto in lei e che in effetti non c’era. Una morte che mette la reale Elena di fronte a se stessa, di fronte alla sua solitudine, alla sua vergogna.
Quel che fa il toro, sempre, quando ha di fronte un torero ingannevole, un torero che tradisce il toro e dunque tradisce se stesso, perché dietro al panno non mette il corpo e la sua verità, ma finge e persiste nella finzione. È in quei momenti che il vero toro, il grande toro, il toro onesto e onorevole, non può che uccidere quella finzione, svelando il fantasma del torero agli occhi del pubblico e condannando il traditore alla fine peggiore, quella della vergogna che non ha mai saputo provare.