Il prossimo sabato, primo settembre, alle ore 18, a Zalamea la Real, Mario Diéguez prenderà l’alternativa. Il momento decisivo per ogni torero dopo una vita di sacrifici corona in questo caso una passione travolgente. Sebastiano Luca Insinga, documentarista italiano che da tre anni lavora sul mondo dei tori, ha conosciuto e seguito Mario Diéguez a lungo. Assieme al fotografo Simone Cargnoni (qui una galleria di fotografie espressamente dedicata al nostro sito) ha potuto partecipare di emozioni e dolori a volte apparentemente senza appello. Questa è la seconda puntata della sua storia.
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SECONDO INCONTRO: LA TENACIA
L’indomani poco dopo le dieci mi arriva un messaggio: “Vediamoci davanti a casa mia. Alle 11,30. Andiamo a casa di Manuel”.
Sono fuori dal bar e sento suonare un clacson. È Mario. Ferma l’auto e apre lo sportello, “Scusa il ritardo!”.
Usciamo dal centro ed entriamo in un complesso di palazzoni in cemento che sembra lo Zen di Palermo. Mario scende e grida: “Pichu!”. Da una finestra rispondono “Ya estoy!”, che si potrebbe tradurre come “arrivo subito”. Pichu arriva, anche se non proprio subito. Si presenta e mi dice qualcosa che non capisco in un forte accento andaluso. “Lui è il mio mozo de espada” mi dice Mario.
Prendiamo una strada che ci porta un po’ fuori. Mario indica ridendo verso avanti. Sotto l’ombra di un palo della luce, l’unica ombra nel raggio di un centinaio di metri, in mezzo a una rotonda dall’erba bruciata c’è Leonardo, il suo banderillero, lo stesso che quasi venti anni fa lo mise per la prima volta di fronte a una vacca selvaggia. Ha in mano un capote e due corna di toro tenute insieme da un pezzo di legno, come il manubrio di una bici.
Il tour continua. Ad ogni ripartenza per tre o quattro minuti suonano le spie delle cinture non allacciate e del carburante che sta per finire. Leonardo indica la strada. Ci fermiamo da sua zia che gli da una busta di carne. Poi da un amico che gli ha ricucito la muleta. Finalmente a casa di Manuel, ed è circa l’una e mezza.
La casa sembra vuota. Mario apre il cancellino di ferro. Chiama Manuel che non risponde. Bussa tre volte con forza sulla porta. Niente. Prende le chiavi da dentro un vaso e apre. Dalla stanza da letto arriva il rumore di una macchinetta, come di un aerosol. Manuel sta ancora dormendo, sotto il ventilore appeso al soffitto, con la macchina dell’ossigeno accesa e la mascherina caduta sul pavimento.
Nel piazzale fuori casa Leonardo ha preso dal baule il capote, la muleta e le corna. Sotto il sole cocente di Agosto iniziano l’allenamento. Comporre figure lentissime, distillati di movimento, memorizzare i passi della danza e manifestarli in gesti controllati, minuziosi, perfetti. Questo è il toreo de salon.
L’unico toro con cui poteva allenarsi Mario era quello che disegnava la sua mente. Il toro che gli si parava davanti e che lui attirava per farlo piegare e obbedire alla traccia della muleta era un toro che poteva vedere solo lui.
Mario guarda davanti a sè quel toro, muove la muleta con lentezza e Leonardo gli va contro come farebbe un toro eccitato dal movimento della stozza. Mario gira come un compasso e accompagna il toro/Leonardo verso l’esterno. Fissato a terra come la punta di un compasso, dal piede sinistro parte una linea retta che attraversa la gamba, il costato e finisce sulla spalla, mentre l’altra metà del corpo si avvita elastica a seguire la sagoma dell’animale che si libera dall’inganno della muleta. Ripetono i passi una, dieci, cento volte in un caldo ostinato.
Nel cortile Pichu sta preparando la brace e dalla casa esce Manuel che nel frattempo si è svegliato.
La casa è un museo delle gesta di Manuel, “Manolo Corona” il suo nome da torero. Sono appese nel salotto tre teste di toro senza le orecchie – trofeo di corride di venti anni prima. I carteles da novillero a Siviglia, Madrid, Malaga, Toledo, Valencia, Ronda. Le foto della sua alternativa del 15 Agosto 1994, nella Gran Maestranza de Caballeria di Siviglia. Gli articoli di giornale che lo descrivono come un torero prodigioso. Qualche foto con le banderillas dell’ultima fase della sua carriera.
Pichu entra in casa accecato dal sole e dal fumo della brace con un vassaio pieno di costine di maiale e Manuel mi passa un bicchiere di vino rosso con ghiaccio e gazzosa. Brindiamo: a Mario!
Quel mix di vino e gazzosa non è innocuo. Senza rendermi conto ho già una mezza sbornia e sono solo le cinque di pomeriggio. Mario è fuori, sotto la doccia. Squilla il telefono di Manuel. “Hola!… Si, soy Yo…”. Un lungo silenzio. Leonardo esce e fa cenno a Mario di entrare. “Non so se riusciamo ad arrivare a quella cifra…”, Manuel guarda verso Mario e fa prima un uno, poi un quattro con la mano. “Di che mese sono?… No, no, no! Tranquillo. Te li blocco già. Mario è da un anno che non torea a va a giorcarsi la vita a Madrid. Lo sappiamo tutti cosa vuol dire… Va bene Alfonso, grazie… Ringrazia il maestro da parte nostra e specialmente da parte di Mario. Ci vediamo sabato. Hasta luego!”. Finita la telefonata stanno tutti fissando Manuel. Mario fa un cenno interrogativo con la testa e Manuel risponde che hanno trovato due novillos per lui, della ganaderia El Freixo di Julian Lopez Escobar, detto “El Juli”.
Adesso devono trovare i soldi per pagarli.
(seconda puntata – continua)