Sol y Sombra è un film italiano girato in Andalusia nel 1998. Ne avevo sentito parlare spesso. E non ero mai riuscito a vederne una sola immagine. Tanto pochi sono gli italiani che si appassionano all’arte tauromachica e tanto intensa è quella passione che difficilmente ci si può lasciar sfuggire qualcosa. Eppure quel film non riuscivo proprio a vederlo. E non ci sono riuscito fino a pochi giorni fa.
Dell’autrice di Sol y Sombra infatti qualcosa sapevo eccome. Francesca D’Aloja è un’intellettuale eclettica che si è sempre divisa fra cinema, teatro e letteratura, ha scritto libri, soggetti, sceneggiature, ha diretto film, interpretato innumerevoli personaggi e soprattutto, durante un festival a Valencia a fine anni Novanta, venne presa dal virus dell’afición, malattia incurabile come tutti sappiamo, malattia che non uccide, certo, ma che qualcosa fa morire e soprattutto costringe a una lotta costante contro gli stereotipi della correttezza dominante.
Poiché nel suo nuovo libro, di prossima pubblicazione per La Nave di Teseo, D’Aloja dedica un capitolo al torero che la infatuò e che è diventato il Mostro sacro dei nostri anni, José Tomás, ho finalmente trovato il modo di chiederle conto di quel film che mi era sempre sfuggito. E che bel film! Tutti noi che abbiamo cominciato a seguire i tori nell’ultimo scorcio del Novecento e abbiamo conosciuto quella Spagna che lentamente si allontanava dall’isolamento a cui era stata costretta dal franchismo, non possiamo che commuoverci di fronte alle strade polverose su cui si getta D’Aloja rincorrendo il cuore di un mondo tanto complesso, ricco, apparentemente antico e certamente chiuso agli estranei, figuriamoci a un’italiana.
Sembra di sentire l’odore di tabacco nero e segatura, gamberetti bolliti e aglio crudo, mentre l’ombra di grandi stanze dalle mura spoglie ci protegge dal caldo impossibile del sole che brucia ogni cosa. Incontriamo toreri, allevatori, impresari. Vediamo tori correre e morire. E ci lasciamo incantare dalle mani di tutti quelli che attorno ai tori cercano di trovare un senso eterno mentre il tempo corre e la morte immensa troneggia su ogni cosa. Seguiamo le dita dei sarti su trajes scintillanti, le dita dei tassidermisti sul pelo di tori che, morti, continuano a incutere un sacro timore, le dita dei ragazzi che scivolano su panni di flanella, le dita dei ragazzi su corna finte che disegnano traiettorie sublimi, le dita dei maestri nelle scuole di tauromachia arronzate in parcheggi, le dita degli aiutanti che vestono un torero, le dita di un torero sulle immagini sacre, le dita delle donne che cantano, ballano e toreano.
Eppoi ci troviamo di fronte all’episodio più commovente. Un ragazzo che arriva a dorso d’asino nello stanzone dove forse lavora e nell’oscurità in cui ci sembra di sentir rimbombare il canto asfissiante delle cicale fuori, racconta la sua storia di maletilla. Dentatura cavallina, David Montoya rivela il suo apodo: El Sevillano. E spiega che per i tori lui vive e per i tori potrebbe anche morire. Così, nel sorriso largo della speranza che si posa su un futuro impalpabile e spesso osceno, riesce a intrappolarci nel racconto del giorno in cui si lanciò da espontáneo nella plaza de La Maestranza.
Era il 7 ottobre del 1997 e mentre toreava Manuel Díaz El Cordobés, lui, senza nulla da perdere oltre alla vita, si getta con un unico timore: essere fermato prima di dare almeno un passo al toro. Sono quattro i derechazos che somministra alla bestia. I momenti più belli di tutta una vita di sofferenze e sacrifici. Poi i subalterni lo acciuffano e portano nel callejón. La polizia gli chiede i documenti. Devono portarlo via. El Sevillano si strappa la camicia: “questi sono i miei documenti” dice con il suo sorriso cavallino. Al collo c’è la Virgen che protegge tutti i toreri. “Sei un puro” gli rispondono allora, e lo lasciano andare.
Ma per lui non è finita. Manuel Díaz El Cordobés, a corrida terminata, gli chiede il perché del suo gesto, gli dice che non è così che si fa, che così si rischia di rovinare il toro al torero e che, se glielo avesse domandato, lui avrebbe potuto offrirgli un suo animale nella finca di proprietà. El Sevillano allora trova il modo di toreare la bestia più selvaggia e infida: la supponenza. E gli risponde, spontaneo come ha sempre vissuto e come ha deciso di gettarsi nell’arena: “Ma non hai fatto anche tu lo stesso con il toro di tuo padre?” Chi conosca le storie del Cordobés padre, dei suoi figli e di chi davvero si lanciò da espontáneo nell’arena e del Chocolate che vi morì, sorride con amarezza.
C’è molta amarezza, in Sol y Sombra. Forse sarà presto disponibile per tutti in rete e se ne potrà assaporare la nota dolente. Una di queste è la difficoltà che deve affrontare una torera che allora sta sognando il trionfo e di cui noi italiani conosciamo bene la storia: Eva Florencia Bianchini. Ha gli occhi sognanti ma senza sorriso mentre racconta. E tace mentre il suo amico, mentore e compagno, Vinagre, spiega che se gli togliessero i tori la sua vita sarebbe finita, prende fiato e cerca invano di trattenere le lacrime.
C’è molta amarezza anche a sentire D’Aloja che dopo quei mesi per le strade di fuoco di Andalusia, si vide impedita la trasmissione del film per via dei violenti attacchi animalisti che già vent’anni fa dettavano legge. E che quando portò Sol y Sombra al Festival di Torino, dovette vivere quel che mai avrebbe immaginato. Era con Eva Florencia, al termine della proiezione. Un uomo le si avvicinò. Credeva, lei, che volesse farle i complimenti o sottoporle qualche domanda. Invece il tipo sorrise e continuando a sorridere le si avvicinò e quando le fu a un passo, dal sorriso sputò. Le sputò in faccia. Per il suo film.