Con le elezioni andaluse, la tauromachia è entrata a pieno titolo nel dibattito politico spagnolo. Sia a causa delle teorie naturaliste e abolizioniste della Ministra Ribera (ministero dell’Ecologia, sulle posizioni del PSOE, n.d.r.): “mi piacciono gli animali vivi”. Sia perché Santiago Abascal (leader di Vox, partito di estrema destra che ha sfiorato l’11 per cento dei consensi, n.d.r.) e Pablo Casado (Presidente del Partido Popular, n.d.r.) se ne contendono la difesa. Ovviamente il leader di Vox lo fa enfatizzando la prospettiva identitaria, mentre il Presidente del PP si rifà piuttosto ai numeri: posti di lavoro, impatto economico, gettito fiscale.
Nessuno scenario potrebbe essere più squallido per il vero aficionado. I tori tornano a essere politicizzati e manipolati. Convertendosi in strumento di pressione politica. Tanto li difende Abascal, tanto finisce la tauromachia per identificarsi in un’espressione anacronistica e datata se non estremista e caratteristica della destra più becera. La campagna di Morante con la bandiera di Vox sottintende una relazione concettuale e organica fra la Fiesta e la Spagna tremendista. Di fatto Abascal ha approfittato di una visita alla finca del destro sivigliano per aggiudicarsi la messa in scena: “Santiago Abascal con i toreri” scriveva il messia ultrà posando accanto a Morante, Pablo Aguado e Javier Jiménez.
Ma non esistono essi, “i toreri”, in un senso corporativo né omogeneo. E non può, Abascal, provlamarsi difensore, soprattutto quando la strategia elettorale travisa la nozione o l’aspirazione apolitica della tauromachia.
Perché Vox non la difende. Vox la utilizza come pretesto del suo arsenale identitario. La tauromachia sarebbe l’espressione della Spagna eroica, la quintessenza della virilità, il territorio puro in cui si erge il toro Osborne, figura totemica che custodisce i nostri valori, i nostri spazi di campo infiniti e la nostra epica incornando il musulmano. España cañí, suspiros de España, que viva España.
Proprio come i tori sono stati proibiti in Catalogna per ragioni di malintesa idiosincrasia, così non ha alcun senso rivendicarli per la medesima ragione. I tori sono fuori dalla politica. Appartengono a un esercizio estremo dell’estetica che transita alle cinque in punto della tarde fra erotismo e morte. La tauromachia scaturisce dal Mediterraneo. Dai suoi miti e riti più remoti. E ha messo radici in America come nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Per questo la massima figura del nostro tempo, grazie al cielo, è un torero peruviano, Roca Rey. E per la medesima ragione, è la Francia a rappresentare la riserva spirituale della tauromachia di fronte agli stereotipi dell’ españolada
Morante de la Puebla si è prestato alla propaganda di Vox. Sua è la libertà, sue sono le idee, però nostro è l’equivoco, di noi aficionados costretti a spiegare che la tauromachia non ha bandiere. E che in nessun modo la rappresentano l’oscurità di Vox o i ragionamenti di Casado.
La tauromachia non può essere difesa dall’economia né può essere condannata dalla candidezza francescana della Ministra Ribera, e tuttavia il dibattito rischia di mettere nell’angolo i tori, relegandoli in un terreno di disputa fra la destra protezionista – il male – e la sinistra abolizionista – il bene –, laddove i tori sono un’espressione culturale, avandguardista, che scandalizza la società senza discriminazioni perché espone tutti i tabù e minaccia tutte le convenzioni: la morte, la liturgia, l’eroe classico, l’eucarestia pagana.
Pablo Iglesias pretende sottoporli a referendium perché aspira ad attrarsi i voti del PACMA (il partito animalista, n.d.r.) e perseverare nella polarizzazione plebiscitaria più che nella regolamentazione degli usi. Mentre Rivera (con la V) ha opposto la soluzione più sensata: chi vuole andare vada, e chi non vuole andare non vada. Lo diceva in altre parole Ramón Pérez de Ayala: se fossi presidente del Governo abolirei le corride, ma siccome non lo sono, non me ne perdo nessuna.