Perdere il tempo

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Non stiamo perdendo tempo. Stiamo perdendo il tempo.

Perdere tempo è un’arte nobile. L’abbiamo imparata, noi che viviamo sul Mediterraneo, forse proprio dal nostro mare, dalla luce che lo illumina, dalle giornate che si allungano e si accorciano e che chiedono a tutti gli esseri umani un impegno più o meno lungo per procurarsi di che vivere. Il tempo del lavoro, il tempo di quell’impegno materiale, eccolo il tempo da perdere. Lo sappiamo con chiarezza fin da quando la genialità della lingua greca volle definire quel tempo di lavoro e di impegno materiale come una sottrazione. Ascholìa. Alfa privativo, ossia negazione di ciò che segue, dunque negazione del tempo libero: la scholè. Lavorare è necessario per vivere, ma vivere non significa occupare il tempo di lavoro. Vivere significa perderlo, quel tempo di lavoro, liberarsene e dedicarsi a se stessi. Riempire il tempo di lavoro significa sottrarre spazio a quella libertà che ci concede di cercare la realizzazione interiore, di farci domande, chiederci se non sia giusta un’altra strada rispetto a quella che abbiamo preso. Dunque scholè. Tempo libero dal lavoro per ragionare, discutere, crescere. Tempo nobile per formare se stessi e curare la propria anima, tutto il contrario dal tempo del lavoro che quello spazio di crescita invece contrasta e che per questo è sottrazione: a-scholìa.

Socrate esaltò nei fatti quel che la lingua greca esprimeva. Perdeva tempo, bighellonava, passava le giornate fra i banchi degli artigiani, chiacchierava, domandava, metteva in crisi, si chiedeva se non fosse meglio comportarsi diversamente e incessantemente spingeva alla cura dell’anima, ossia proprio all’uso migliore del tempo, per crescere se stessi anziché accumulare i beni esterni. Platone e Aristotele, a loro modo, nel loro stile, esaltarono il tempo libero dal lavoro. E da lì in poi chiunque di noi si aggiri per la città o la campagna, da solo o in compagnia, seduto sotto un platano come i due protagonisti del Fedro platonico o a un bar come è più semplice fare ora, chiunque di noi cerchi un senso, s’interroghi e semplicemente se ne stia lontano dal lavoro senza pensare a quel lavoro e senza riposare solo per tornare al lavoro, chiunque di noi insomma sappia perdere tempo con arte può indicare i suoi grandi maestri nell’Atene del V e del IV secolo a.C., le origini della nostra storia culturale.

Stiamo perdendo tempo da un anno a questa parte? No. Stiamo perdendo il tempo. Stiamo perdendo il tempo libero dal lavoro, il tempo per ricreare noi stessi. A volte si ha l’impressione che un grande vecchio esista davvero e abbia concepito tutto questo in maniera così sistematica e logica da apparire impeccabile. Siamo rinchiusi in casa, abbiamo strumenti per lavorare da lontano e lavoriamo. Se è necessario uscire per lavorare possiamo farlo. Ma qualsiasi spazio diverso ci è stato sottratto. E senza lo spazio dove è possibile perdere tempo, siamo costretti soltanto a perdere il tempo, il tempo sacro, quello libero che nella primavera esplode di dolcezza e nell’estate s’illanguidisce eppoi nell’inverno si contrae per tenderci di nuovo come elastici verso il tempo che si srotola nel ciclo e che nel ciclo lascia trionfare l’essere umano.

Qualcuno ne è contento. È noto a tutti che nella nostra storia culturale ha fatto irruzione un fenomeno che in maniera antitetica a ciò che i maestri antichi ci avevano insegnato ha esaltato il lavoro, arrivando a considerare il successo alla stregua di un segno chiaro di salvezza divina. Il capolavoro di Max Weber – L’etica protestante e lo spirito del capitalismo – è diventato un classico e chiarisce ancora oggi la questione. E la questione è quella che è sotto gli occhi di tutti: lavorare non basta affatto all’essere umano. Bisogna avere lo spazio e il tempo per perdere tempo se non si vuol essere afflitti dalla sensazione drammatica che il tempo, il tempo vero, lo stiamo perdendo. In questi mesi, è la sensazione comune di milioni di persone condannate a non vivere il tempo libero, a non sedersi casualmente in un bar dove sorseggiare con lentezza estrema un caffè, dove magari incontrare casualmente, litigare, discutere, mettere o entrare in crisi. Milioni di persone condannate a non frequentare un teatro, non andare a un concerto, non stendersi come Socrate e Fedro sotto al famoso platano e a non vivere tutte quelle situazioni in cui la scuola spirituale più che quella fisica è il luogo più importante che ci sia concesso frequentare, perché “scuola” infatti non significa altro che scholè.

Stiamo perdendo un’altra primavera.  E sembra che tutto il mondo che abbiamo cercato di crearci sia stato chiuso da un nordico genio del male. La luce è lunga ora a Siviglia. Mi pare di avere improvvisamente nel naso il profumo delle zagare e di vedere i due campanili della chiesa di San Ildefonso che nel crepuscolo saturano l’ocra e il rosa. Ma c’è qualcosa che non riesco a afferrare. Forse è una stradina di Atene che amo arrampicandomi verso il Licabetto e il tramonto di fuoco che sale (anziché scendere) dal Pireo. L’odore di brace che si diffonde da qualche terrazzo e a Tsimiskis di nuovo l’odore dolciastro di zagare. Dove se ne va questa primavera? E dove possiamo ritrovare il tempo perduto?

Quando il più antico romanzo della nostra storia si chiude, quando Odisseo è tornato finalmente sul trono e si rivela a Penelope e si chiude nelle sue stanze sul letto intagliato nel grande “olivo fronzuto” Atena inventa un espediente geniale perché Odisseo venga ricompensato di tutto il tempo perduto. Allunga la notte. Ferma i cavalli che riportano il sole in alto nel cielo. Concede ai due amanti che si ritrovano di godere di una notte che scardina le coordinate spaziotemporali. È una sospensione dalla linearità del tempo. Un segno preciso che si può uscire dalla linea retta per immergersi nel ciclo, perché solo immergendosi nel ciclo, si può riavere indietro il tempo e perderlo. Ma Odisseo non ne è capace. Di fronte a questa possibilità, forse sbalordito dall’occasione che gli viene data, diversamente da ogni altra occasione in cui tace, è prudente, si trattiene, non dice, non svela, diversamente da quel che ha fatto per vent’anni, pur di continuare a immaginare il tempo come una linea retta e pur di continuare a guardare avanti anziché al presente, Odisseo rivela alla moglie che presto dovrà ripartire. Ci dà un indizio per questi tempi bui Omero, per questi tempi in cui il tempo si svolge, non si perde e si disperde. C’è qualcosa che possiamo fare. Non arrenderci all’etica protestante. Non guardare nel futuro. Riappropriarci della nostra anima. E rifiutare il gesto dell’eroe che la modernità capitalista ha eletto come suo grande idolo. L’astuto e paziente Odisseo.

Niente astuzia, allora. Niente pazienza.

Consegniamoci al giovane Achille e apriamoci alla sfida.

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Matteo Nucci (Roma, 1970) è scrittore, oltre che aficionado. Negli anni Novanta a El Espinar, durante una notte interminabile, vide vaquillas correre nella plaza. Era l'inizio della febbre tauromachica

3 COMMENTI

  1. Ciao Matteo. Anche questo scritto mi ha colpito molto. Lo vorrei approfondire con te alla prima occasione.
    Adriano Corà

  2. Capisco quasi tutto e sono predisposto come filosocratico ma, francamente, la fuoriuscita dal tempo storico è il rientro nel tempo metereologico non mi convincono. Esattamente come il mateiarcato al posto dell’apeiron.
    Bonne chance
    Rodolfo granafei