Salutiamo la fine di un altro anno drammatico con la storia leggendaria di un mito taurino del Novecento che ci ha lasciato. Si chiamava Pedro Martínez González, in arte Pedrés. Il suo nome sarà eternamente ricordato per via di un passo che fa tuttora rizzare i capelli al pubblico: la pedresina.
Il maestro Pedrés è morto. È andato via uno dei padri dell’estetica della tauromachia del Novecento. La sua storia è un grande affresco taurino.
Come novillero diede ad Albacete la sua piccola rivalità torera, contrapponendo la rivoluzione al tradizionalismo di Juan Montero e, mentre questi si eclissava, lui saliva sull’Olimpo, trionfando a Madrid, l’8 giugno del 1952 (tre orecchie e uscita in corteo sulle spalle). Sotto la guida di José Flores “Camará”, l’artefice della carriera di Manolete, Pedrés prese l’alternativa quello stesso anno, il 12 ottobre, día de la Hispanidad, a Valencia, dalle mani di Miguel Báez “Litri”, e per tre stagioni rimase al vertice della popolarità. Il paesaggio pianeggiante dell’Argañán l’aveva visto, bracciante e commesso in una drogheria, macinare in bici e a piedi chilometri su chilometri nelle trazzere, pronto a buttarsi illegalmente contro tori d’allevamento e a partecipare a squassanti capeas. La scalata era compiuta, da solo e contro tutti. Pedro Martínez González, il nostro Pedrés, era ora divenuto uno dei nomi più acclamati della tauromachia.
Coraggio, eterodossia, entusiasmo erano gli ingredienti della sua arte e confluirono tutti nella pedresina, un gioco di muleta con la schiena rivolta al toro e il panno piegato chiuso nella mano sinistra, un pase cambiado por la espalda, di solito eseguito presso la barrera, mentre il torero girava sui talloni per posizionarsi di spalle (frequentemente di fianco), con la muleta che si apriva solo nel momento più prossimo all’avvicinarsi del toro che accorreva caricando. Era un muletazo con cui Pedrés deviava la linea del toro nel lato opposto a quello della mano sinistra, suscitando l’attenzione e l’angoscia nel pubblico, indotto a ritenere imminente un orribile impatto perché la muleta per lunghi attimi scompariva dalla vista dell’animale e il corpo del torero era lasciato completamente scoperto. Con numeri del genere finì tra i capiscuola del tremendismo, protagonista di un toreo costantemente alla ricerca del croscio delle emozioni, attraverso passaggi che suggestionano le masse. Néstor Luján lo definì cupo e malinconico, “aveva il segreto della spettacolarità passiva”, disse.
Tre anni dopo la salida a hombros di Madrid, Pedrés si ritirò. Passò a coltivare il sogno catoniano, quello che concretizzò nella finca Los Labraos, nel Campo de Argañán, a Espeja e Fuentes de Oñoro, tra i querceti al confine col Portogallo. Non mollò mai però capote e muleta e continuò a toreare nella provincia di Salamanca del Campo Charro, perfezionando lentamente la sua interpretazione del toro e apparendo di tanto in tanto in qualche plaza. Così finì coinvolto nelle romanzesche operazioni con cui Buñuel superò la censura franchista per consegnare la pellicola “Virdiana” al festival di Cannes.
È una storia che pochi ricordano. Il cineasta aragonese, rientrato in Spagna dopo un lungo esilio, aveva realizzato delle riprese per un film profondamente politico, in collaborazione con militanti del partito comunista clandestino, compreso Domingo Dominguin, all’epoca procuratore di Pedrés. Quando la censura bloccò il montaggio finale, per poi disporre la distruzione del lavoro, Juan Luis Buñuel, figlio del regista, consegnò i negativi a Pedrés che li avvolse in capotes e muletas e li portò col treno a Barcellona e da lì in furgone a Lunel, con la sua cuadrilla. Anche grazie a lui, a Cannes “Virdiana” vinse la Palma d’oro.
Tanta audacia non poteva restare a lungo lontana dalle arene. Il ritorno definitivo avvenne nel 1963. Spesso con El Cordobés, a cui confermò l’alternativa, spesso in trionfo, come a Siviglia, con due tori di Antonio Urquijo, era ora un torero diverso, maturo, sicuro. A qualcuno sembrò irriconoscibile. Per molti aveva pagato caro il prezzo della sua conversione. Accanto al V Califa del Toreo pareva che l’originalità del suo stile fosse andata sbiadendosi. Il tremendismo non era, invero, scomparso. Era il suo senso della lidia che era cresciuto. “Il Pedrés della prima tappa era l’innocenza. La mia unica nozione era di concentrarmi e restare immobile. Lascia passare il toro, dovunque fosse, ma lascialo passare. E sta fermo. Quel non sapere cosa sarebbe accaduto, non sai che impatto ha avuto sulla gente! Trasmetteva rischio”, confessò. Pedrés però non rinunciava all’effetto drammatico dei suoi numeri per infiammare il pubblico, non s’asteneva dai suoi caratteristici atteggiamenti azzardati, apparenti o reali, e la pedresina continuava ad aprire la faena de muleta, ma adesso gli spettatori si ritrovavano sedotti da una maggiore purezza, da linee chiare, da un toreo più vero, pacato e concettuale. Soprattutto la novità era che Pedrés aveva accorciato le distanze. Questo è uno dei suoi più grandi lasciti, una lezione che ha spianato la strada a figure come Dámaso González, Paco Ojeda, José Tomás, l’annuncio di un’idea di corrida ravvicinata, in contatto col toro e lenta. Ma oggi i tori si fermano! “Devi accorciare la distanza dai tori e sempre in linea retta. Quando il toro vede che ci sei sopra, vedrai se inizia. Fanculo se inizia!”, obbiettava lui, ormai in tarda età.
L’ultimo atto lo recitò nel 1965 a Hellín, alternandosi con Paco Camino e El Cordobés. Tornò poi al mondo degli affari, si dedicò ad allevare tori e a gestire le plazas di Valencia e Albacete.
Novantenne, si è spento a Madrid tra le braccia di sua moglie, Teresa Jareño, cantante di flamenco, dopo una lunga infermità.