Pasqua di dolore

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Foto M. Nucci

A Sevilla tutto ha definitivamente inizio la Domenica delle Palme. Al mattino le pasticcerie sono prese d’assalto. L’odore delle zagare si confonde con gli aromi dell’incenso che brucia per le strade e della cera che cola nelle chiese. La prima confraternita che porta in trionfo i misteri della Pasqua inizia a sfilare dal portone della Chiesa di San Sebastián poco dopo pranzo. Fra petali di fiori bianchi che cadono dalle terrazze, uomini e donne godono commossi di uno spettacolo in cui la dimensione religiosa lascia spazio a quella artistica e laica, in una festa senza precedenti che dura una settimana intera. Anche Atene, il giorno della Domenica delle Palme, si schiude come travolta dalla forza inesauribile di qualsiasi attesa. Al mattino le campane suonano, i ramoscelli di ulivo passano di mano in mano e le strade, percorse dal profumo dei fiori di neratzies, le zagare greche così dolci e impalpabili, si riempiono di chi finalmente vede la luce della Settimana Santa. Un turbinio di feste, rituali, digiuni e brindisi si prepara. Fino alla Resurrezione.

Negli ultimi dieci anni, sono stato inghiottito nel Mistero della Pasqua. Non tanto il Mistero religioso di Cristo che va alla morte e tre giorni dopo risorge, quanto il Mistero della sacralità religiosa capace di dilatarsi, espandersi e trasformarsi in sacralità pagana, per certi versi addirittura laica in quell’energia puramente umana, mortale, di vincere la morte. Quello spazio in cui dolore e felicità si mescolano nel desiderio di riscattare la propria condizione effimera attraverso un sogno di immortalità che è festa, arte, comunione di spirito, e in una parola: vitalità assolutamente corporea.

Grecia e Spagna sono i Paesi, diversi dal mio, attraverso cui ho cercato di immergermi in questo Mistero. Due dimensioni che spesso ho potuto vivere allo stesso tempo, visto che tre volte su quattro la Pasqua Ortodossa segue di una settimana quella Cattolica. Sempre mi ha emozionato fino alle lacrime il vitalismo spagnolo che vibra nei giorni della Semana Santa. Lì, soprattutto, in Spagna, e in particolare in Andalusia, dunque supremamente a Sevilla, ho avuto chiara l’impressione che la grande festa pasquale ha a che fare con la vittoria dell’effimero sull’immortale. Ciò che ho sperimentato ogni volta anche in Grecia, ma in maniera meno evidente a livello simbolico.

Le processioni spagnole, al di là degli infiniti particolari rituali, estetici, musicali, scenografici che ne caratterizzano profondamente il senso, mettono in mostra una cosa molto semplice. La festa che accompagna per ore le statue lignee del Cristo e della Vergine attraverso le vie cittadine rappresenta di per sé la vittoria sulla morte. È la vittoria della nostra vita di mortali che per un giorno all’anno diamo di nuovo vita al Cristo e alla stessa Vergine, portandoli in trionfo e trattandoli come gli esseri in carne e ossa che furono. Dunque vivi nel loro ballo fra ceri accesi, fiori fradici di aromi, una folla esultante, danzante, incredula, spesso ubriaca.

La vittoria sulla morte la celebra la vita stessa, la nostra vita, vita di mortali dunque, non di immortali. Gli immortali non potrebbero mai celebrare la resurrezione, la vittoria sulla morte, non conoscendo la morte. Solo i mortali possono affrontare la fine e possono rivendicare la loro vittoria fisica, carnale, tutta umana, capace dunque, al di là di ogni risposta religiosa, di dire la forza e l’eternità di ciò che ha breve vita, l’effimero, che proprio in quanto effimero è sacro e dunque eterno.

Nelle sue sfumature di tragedia, nonché priva del vitalismo tipicamente spagnolo, la Grande Settimana greca (perché così viene chiamata la Settimana Santa) racconta la stessa ansia di trionfo. Man mano che le città festeggiano e si svuotano, visto che i Greci generalmente si riuniscono nelle loro case di campagna, nei paesini, nei villaggi, in dimensioni familiari soprattutto o in comunità di amici, lo stesso trionfo della carnalità si avverte. Il bisogno di manifestare nei gesti, più che attraverso i simboli, che è questa nostra vita a vincere, questa nostra condizione finita, mortale, eppure, proprio perché effimera, addirittura superiore a quella immortale. Questo è la Pasqua. Risorgere nel corpo e nello spirito. Come sarà chiaro la domenica della Resurrezione, quando si rompono le uova che portano vita e l’agnello gira sulla brace per ore, di mano in mano passa il kokoretsi, mentre il vino buono riempie i bicchieri.

Cosa ne è allora di una Pasqua senza tutto questo? Che Pasqua è una Pasqua di morte e di reclusione? Una Settimana Santa che non santifica la vita, un’attesa priva di attesa, una quarantena mondiale in cui tutto è impedito: ogni vitalità, ogni unione, ogni abbraccio, ogni danza, ogni ubriachezza, brindisi, banchetti, e grida al cielo perché qui è la vita, questa è la vita di chi si fa eterno. Perché per farsi eterno Cristo deve essere carne. Solo la carne vince la morte. Ma come può vincerla in questo anno in cui nessuna espressione di vita è consentita, pur di salvarla, la vita, e aspettare il momento in cui potrà essere celebrata?

Mi sono arrovellato in una malinconia senza fine, questi giorni. Finché non mi ha soccorso Eschilo.

Conosciamo tutti l’espressione con cui Eschilo seppe dire, usando due semplici parole, il senso estremo della nostra esistenza. Pathei mathos sono le celebri parole che appaiono nell’Agamennone, quando il coro intona una specie di inno a Zeus, ossia all’immortale più alto, quello che ha dato ai mortali la possibilità di avviarsi alla conoscenza e alla saggezza attraverso la sofferenza. Gli uomini sono spinti a conoscere dal dolore. È una legge universale che supera qualsiasi confine spazio-temporale e grazie al suo genio religioso e artistico, Eschilo l’ha consegnata all’eternità.

Sono tornato a leggere quel coro grazie alla spinta di un amico. E ho scoperto qualcosa di cui mai mi ero accorto prima.

“Ma chi a Zeus con gioia leva il grido epinicio

coglierà pienamente la saggezza,

a Zeus che ha avviato i mortali

a essere saggi, che ha posto come valida legge

“saggezza attraverso la sofferenza”.

Invece del sonno stilla davanti al cuore

un’angoscia memore di dolori:

anche a chi non vuole arriva la saggezza.”

La traduzione che qui Enrico Medda ha condotto su Agamennone 174-181, come ogni traduzione, non può lasciarci vedere ciò che è offuscato dalla solennità di quella specie di legge posta da Zeus e che il poeta esprime con le due famose parole: pathei mathos. Ma dobbiamo farci forza, se siamo noi stessi quelli che devono vivere il dolore, oltre che leggerne le parole come fosse solo materia di studio. E la grandezza del pathei mathos sta nel modo in cui si manifesta e nella saggezza che arriva agli uomini, a tutti gli uomini, anche a coloro che non vogliono, a coloro che ignorano o che semplicemente preferirebbero non soffrire e semmai assimilarsi agli immortali. Ma non è possibile. Anche involontariamente, tutti noi mortali siamo costretti a soffrire e dunque a diventare migliori, a crescere sulla via della conoscenza, con lo strumento del nostro dolore. Perché il dolore arriva per tutti. “Anche a chi non vuole arriva la saggezza”.

Per tutti, volenti o nolenti, la Settimana Santa di questo anno è la Settimana del dolore. Niente trionfi di vitalità. Niente carne da rivendicare contro la fine. Ma la sofferenza che può mettere volenti o nolenti gli esseri umani sulla via della conoscenza.

Non è una scusa o una soluzione d’accatto. Per rinascere, per risorgere, per far trionfare la vita, è necessario confrontarsi con la fine. Morire per rinascere. Solo se facciamo i conti con la nostra mortalità possiamo far vincere la carne. Non se pensiamo invece che i nostri siano tempi di irresistibile trionfo sulla morte.

All’inizio dell’Iliade, un’epidemia sta colpendo il campo acheo. È necessario capire il motivo di tanto dolore per superarlo e guarirlo. Achille sfida Agamennone, chiama l’indovino Calcante a esprimersi. E Calcante, come ogni grande indovino dell’antichità, sa che per vedere il futuro è necessario conoscere il passato. C’è una grave offesa alle divinità dietro i dardi pestilenziali che Apollo scaglia contro gli Achei.

Qual è la grave offesa alla nostra umanità e dunque alla Pasqua stessa a cui abbiamo partecipato nel recente passato se non l’aver smesso di fare i conti con la morte e semmai aver sognato un’impossibile immortalità? Si era sulla strada di una vita infinita, di chirurgie plastiche, sogni di clonazione o ibernazione. Niente morte. Niente morte da vedere, da piangere e da pregare. Niente morte su cui riflettere. Solo immortalità da sognare.

Ma per essere immortali dobbiamo essere effimeri. Finiti, mortali, avviati alla sofferenza come Cristo sul Golgota. Questo è il dolore della nostra Pasqua che ci chiama, volenti o nolenti, alla conoscenza.

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Matteo Nucci (Roma, 1970) è scrittore, oltre che aficionado. Negli anni Novanta a El Espinar, durante una notte interminabile, vide vaquillas correre nella plaza. Era l'inizio della febbre tauromachica

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