Poco tempo fa sono stato al Castello di Rivoli dove è in corso la prima grande retrospettiva dedicata a un’artista straordinaria: Anna Boghiguian. All’interno di una serie di interventi di esterni al mondo dell’arte contemporanea, ero stato invitato a scegliere un tema da approfondire in relazione all’opera di questa artista nata al Cairo nel 1946, di origini armene, una vita nomade spesa soprattutto fra Canada e Egitto. Poiché la produzione di Anna Boghiguian è molto narrativa, e poiché avevo seguito molte trame mediterranee in cui mi sembrava dominare l’idea eterna dell’impossibilità di uno dei massimi e più amari desideri umani, ossia il ritorno a casa, avevo preparato un intervento tutto dedicato all’Odissea. Volevo innanzitutto sottolineare un fatto: il poema della nostalgia e del ritorno a casa non racconta in effetti né la nostalgia come noi oggi la intendiamo, né il compimento del ritorno a casa. Sbaglia chi crede che Odisseo riesca davvero a tornare a casa. Tutto il poema sottolinea il dramma dell’uomo che sbarca a Itaca e non riconosce la sua patria da cui è lontano da oltre vent’anni, la fatica nel riconoscere e farsi riconoscere (solo un cane ne annusa la presenza eppoi subito muore), l’impossibilità di riavere ciò che si è perso o di avere ciò che per anni si è sognato. Siamo troppo legati alle versioni semplificate del poema: immaginiamo le vicissitudini fantastiche con cui l’eroe deve fare i conti nel suo percorso di ritorno da Troia e pensiamo che, come in un’opera d’intrattenimento dei nostri tempi, il poema descriva soprattutto l’azione e le peripezie che ostacolano l’uomo prima della riuscita finale. Ma il poema, nei venti libri dedicati a Odisseo, ne dedica oltre la metà, ossia dodici, sull’isola di Itaca dove una sola cosa siamo costretti a imparare: tornare a casa è impossibile. D’altronde la nostalgia non era un sentimento noto ai greci come pare che sia noto a noi oggi. Questa parola coniata su termini greci non è infatti greca. Il dolore (algos) del ritorno (nostos) fu raccontato da uno studente di medicina nel XVII secolo – Johannes Hofer – mentre i greci per definire il desiderio impossibile di casa usavano ben altro termine. Niente di riferito al ritorno che essi sapevano impossibile, ma a qualcosa di inesistente, lontano, irrimediabilmente perduto e mai più conquistabile. Si trattava del pothos, il desiderio amaro e doloroso rivolto verso un luogo inaccessibile o verso persone irraggiungibili.
Ma perché ne parlo ora? Vorrei approfondire uno dei sentimenti più tipici di noi aficionados quando si avvicina la festività del Sol Invictus, ossia quando, dopo il solstizio d’inverno, il sole comincia a rinascere e ci mostra di essere invincibile. È la festa di Mitra (oggi detto Natale) ma non è per il giovane persiano adorato a Roma (e soprattutto fra i legionari romani) nell’atto di sgozzare il toro, non è per lui che noi appassionati tremiamo quando il sole rinasce e soffriamo nei giorni precedenti a quel momento. È piuttosto la nostalgia dei tori quel che apre un varco nelle nostre viscere e scava come un verme. Il desiderio di tornare ai tori, ora che la stagione è chiusa, di corride se ne possono vedere solo oltreoceano e i toreri si allenano o cercano nuova ispirazione e i tori crescono nel freddo invernale degli allevamenti. Nostalgia dei tori. Sappiamo bene cosa succede dopo il Sol Invictus. Arrivano giorni in cui un’aria nuova e un nuovo tepore ci fanno sentire odore di arena preannunciandoci il ritorno. Dobbiamo solo aspettare allora? Dobbiamo fare quel che raccontava Belmonte nel magico libro che gli dedicò Chaves Nogales? “L’inverno. Che è per il torero la camera in una casa padronale di campagna, il calore di un camino in cui brucia legna secca, odore di cisto e timo, rumore di speroni e ferri di cavallo, suonar di campanacci, latrati nel silenzio della notte, corse vertiginose a cavallo, stringendo in mano la garrocha, alle costole di un vitello e lo scontro con l’animale per farlo cadere in terra zampe all’aria. Cani da caccia e lepri. Il cervo fermato nella sua corsa e rivoltato in un salto mortale, e lo spazio enorme, pieno di letti bianchi, freschi, per passare dall’uno all’altro… E infine, la castagna cade matura dall’albero. L’ultima corrida! Il torero tira un sospiro di sollievo fino a primavera. Crede che una soddisfazione simile durerà fino allora. Ma in poco tempo già dubita. E non sa se preferisce essere torero d’estate o torero d’inverno”. Aspettare il riposo per scoprire infine che non si desidera altro che il ritorno. Eppoi? Scoprire forse che il ritorno è impossibile? Ma no. Per carità. Facciamo gli scongiuri. Certo che torneremo ai tori. Eppure. Eppure c’è altro in questa nostalgia che s’impossessa di noi mentre l’autunno e l’inverno ci allontanano dalle plazas. C’è un carattere assolutamente proprio dell’infinito mondo taurino capace di spiegarci proprio quel che raccontavo all’inizio. Ossia l’insussistenza della nostalgia e semmai la preminenza di ben altro sentimento: il desiderio di ciò che mai raggiungeremo.
L’arte tauromachica è innanzitutto un’arte supremamente effimera. Effimera non per valore come oggi spesso s’intende l’aggettivo. Ma effimera nel senso originario del termine. Ossia “che dura un solo giorno”. Più dello stesso teatro e del balletto, la corrida è arte effimera. Legata al momento e mai più riproducibile. Quante volte ci è capitato di uscire da un’arena, dopo un commovente pomeriggio di tori, e abbiamo tentato di ricordare quel che è capitato in pista, e abbiamo riprodotto i movimenti eppoi li abbiamo riguardati in qualche video per scoprire che tutto quel che avevamo sognato si era inevitabilmente perduto nell’aria, nel momento, in quell’unico irripetibile momento? Nessun supporto potrà mai fermare la bellezza o la tragedia che abbiamo vissuto. Né un racconto, né uno scritto, né un video. La sfida fra uomo e toro in un’arena è cosa effimera per definizione. Irrecuperabile. Non si torna mai nella casa che si è lasciata. Ma la corrida non è soltanto effimera. Possiede anche un altro carattere intrinseco che noi appassionati conosciamo bene. Sospesa fra rito e culto, fra messa laica e sacrificio, fra spettacolo e esperienza emotiva totalizzante, essa non permette mai giudizi univoci e ha a che fare soltanto con un mistero che tale deve rimanere, come misterioso è l’animale al centro del “gioco” e misterioso è l’animale dotato di logos che di fronte al toro mette il suo corpo. Al punto che il nostro desiderio di condividere l’esperienza estetica dei tori si rivela sempre un fallimento perché è un desiderio irrealizzabile, eppure è un desiderio di cui mai potremmo disfarci. Ecco che si dischiude infine l’ultima questione, ossia uno dei caratteri più unici della passione taurina: la nostalgia di un tempo mai vissuto, la nostalgia verso qualcosa di cui non abbiamo mai fatto esperienza e di cui mai la faremo. Quante volte ci è capitato di rimpiangere una corrida mai vista? Quante volte abbiamo provato malinconia a pensare alle corride di Belmonte e Joselito che non abbiamo mai visto? Quanto vorremmo tornare all’arena con Hemingway per assistere a un mano a mano fra i due eroi di Un’estate pericolosa anche se a quelle corride non andammo mai? E come vorremmo rivedere Lagartijo? E quanto ci piacerebbe tornare a una corrida in cui i cavalli sfidavano i tori senza peto?
La corrida è nostalgia per definizione. Ovvero desiderio di un ritorno impossibile. Ovvero desiderio di qualcosa che non c’è e che non raggiungeremo mai. Ma proprio questo è il pothos greco. Perché – spiega Platone – il desiderio esiste solo verso ciò che non possediamo. E proprio in questo consiste l’ansia di conoscere tutta occidentale. Il senso critico. La smania di arrivare a qualcosa che non arriva mai. Il cuore del senso critico.
Sono stato felice al limite delle lacrime, quando, girando per le meravigliose sale del castello di Rivoli, ho scoperto un’installazione di Anna Boghiguian che risale a un anno fa intitolata Promenade dans l’incoscient. Un viaggio onirico nel tempo e nella geografia fra Nȋmes e Alessandria d’Egitto. Centro indiscutibile della ricerca: il toro.