Il problema etico della corrida interessa filosofi e animalisti, ma la prospettiva etica non spiega perché la corrida continua a esistere in luoghi, tempi e gruppi ormai distanti dalle contingenze geografiche, storiche e sociali che hanno determinato il consolidarsi di questo spettacolo. Spagna, Francia, America Latina sono legate da relazioni culturali complesse, la corrida andalusa ha attecchito in terre dove una tradizione taurina era viva già da tempo o dove è stata importata dalla cultura egemone, ma il pubblico contemporaneo non è più quello di duecento o anche solo di dieci anni fa. Ragioni locali, tradizionali e identitarie sono eternamente presenti, ma il punto è cercare di capire perché oggi, pur nella diversità di luoghi, motivi e culture, si sceglie di andare a vedere uno spettacolo altamente codificato in cui un uomo arriva a uccidere un toro rischiando a propria volta di farsi uccidere. Non si tratta semplicemente di assistere al confronto tra un torero e un toro, mi riferisco invece al rapporto arena-spettacolo, pubblico-evento, spettatore-attore, prima, durante e dopo la lidia vera e propria. In particolare, bisognerebbe pensare alla performance nel pubblico, cioè l’esperienza empatica di uno spettatore individuale e collettivo che diventa attore (semi)passivo della corrida. La mia ipotesi è che la corrida sia un “rito aperto”, cioè un dispositivo rituale vuoto permeabile all’attribuzione di contenuti diversi secondo contingenze diverse. Detto altrimenti, al di là delle innumerevoli interpretazioni culturali che la accompagnano, la corrida ha un’efficacia simbolica pre-culturale che agisce sul livello sub-personale dell’individuo, dove con sub-personale mi riferisco al sistema cervello-corpo, una componente non secondaria e non eludibile della totalità (anche) culturale del soggetto. Qualunque sia il motivo (ideologico, estetico, identitario, ecc.), la mia idea è che lo spettatore cerca/trova nella relazione intercorporea e intersoggettiva con il pubblico, con il torero e con il toro dei “benefici rituali”, degli effetti che attraverso il livello sub-personale interessano il livello culturale. Il quadro empirico, teorico e metodologico è dato dal concetto di simulazione incarnata (embodied simulation) elaborato da Vittorio Gallese e Michele Guerra, un modello della percezione, della ricezione e dell’intersoggettività a cavallo tra neuroscienze e saperi umanistici. Work in progress.