Ieri splendeva il sol invictus. Come sempre, la prima domenica o la prima festa dell’anno, illuminata da un nuovo cielo, spinge gli aficionados a sognare tori. Mai come nella stagione appena conclusa abbiamo sentito che l’effimero dell’incontro fra uomo e toro ci è sfuggito fra le dita. Si potrebbe giudicarla cosa normale visto ciò che effimero significa. Ma non è così. Ne ho scritto in un breve articolo pubblicato dall’Espresso. Tornare all’effimero è il sogno del nuovo anno.
In assenza. La pandemia ci ha costretti a considerare tutto possibile “in assenza”. Come se qualsiasi espressione di arte fosse fruibile, alla stregua di un prodotto da recapitare o al limite “trasmettere”, per mezzo di strumenti che ce lo restituiscono nonostante la nostra assenza. Ma non è così. Ciò che la congiuntura del peggior anno bisestile ha inesorabilmente portato via è tutta quella dimensione in cui chi osserva e partecipa ha una parte quasi altrettanto rilevante di chi viene osservato, al punto che ciò che definiamo “arte” si identifica sostanzialmente con l’opera che si crea in quell’esatto momento e in quel preciso luogo grazie all’incontro fra chi è osservato, ascoltato, percepito e chi invece osserva, ascolta e percepisce, in breve: fra chi è sul palco e chi è sugli spalti. La dimensione del thèatron insomma. Che per gli antichi, prima di essere una struttura vera e propria, fu il luogo della visione (da theàomai, osservo, guardo, sono spettatore). Svuotate, dimezzate, purificate o anestetizzate, le platee degli spettacoli che chiamiamo effimeri hanno alterato completamente quegli stessi eventi, quando di essi si è tentato di salvare il salvabile. Concerti, opera, spettacoli di teatro in senso stretto, corride, balletto. Qualsiasi tipo di arte concepita da sempre per la presenza e non l’assenza (a meno che questa assenza avesse di per sé un senso) è stata sospesa quando non spazzata via. Una catastrofe senza precedenti, tuttavia capace di offrire uno spunto di riflessione decisivo nei nostri tempi dominati dall’illusione della reperibilità e raggiungibilità a ogni costo. Ci siamo resi conto che ciò che è effimero possiede un valore di eternità solo in quanto effimero. E non è un paradosso. Effimero è ciò che, stando all’etimologia greca, dura un giorno soltanto. Effimero in arte è tutto ciò che è volatile al punto che nessun tipo di tecnologia ne può fermare l’incanto. Effimero, nel tempo dominato dal valore solido e quantificabile o da credenze che si presumono universali e eterne, è qualcosa che vale poco. E invece, come dice un aforisma andaluso, “solo ciò che è effimero è eterno”. Perché in questa nostra dimensione umana – preziosa perché finita, sacra perché immanente – solo il gesto, la scelta del momento, l’ineffabile movimento possono pretendere di rimanere, trapassando in altri gesti e in altre dimensioni. Del resto, l’esperienza estetica è personale e tutta relativa al tempo e allo spazio in cui si consuma. Anche la fruizione di un’opera apparentemente non effimera, quindi, è dovuta all’incontro che si stabilisce in quel momento e mai più. Ma è il perfetto effimero a mostrarcelo esemplarmente. Quell’unico movimento, quel profumo, quel suono, quell’insieme che abbiamo colto coi nostri sensi da un preciso e unico punto spaziale, in un preciso e unico punto temporale. Ci è mancata molto quest’esperienza nell’annus horribilis 2020? Forse almeno abbiamo scoperto perché. Solo l’effimero è destinato a restare. Solo l’effimero, non soltanto nella dimensione artistica, può davvero ambire all’eternità.