Enrique Ponce è un mago del trasformismo. Ma se la spettacolare arte del mutare le sembianze in tempo sbalorditivo è stata applicata da Fregoli in poi alla propria figura, il maestro di Chiva ha sublimato la tecnica riuscendo a trasferirla al toro: non ancora soddisfatto, Ponce altera però nell’animale non già l’abito ma tutto ciò che questo contiene, così che gli Adolfo Martín capitatigli in sorte in questo soleggiato pomeriggio di Istres mantenevano dell’albaserrada la forma di massima, certo il manto grigio, il muso da topolino e (modeste) corna da saltillo, ma sotto al pelame cárdeno circolava nelle vene sangue assai più dolce, i muscoli erano svogliati e il carattere si sarebbe detto pacioso. Occorre in ogni caso riconoscere a questo inedito Brachetti della tauromachia una buona dose di elegante generosità: fatta eccezione per il quinto del pomeriggio, capitato in sorte a Curro Díaz, era tutto il lotto degli Adolfo a soprendere per bontà d’animo e forze misurate, vantaggio insperato di cui hanno potuto godere anche i colleghi del giorno e in particolar modo Paco Ureña, uscito in trionfo in compagnia dello stesso Ponce.
Ad aprire le danze si trascinava in pista Sevillano, molliccio e mal piccato, le zampe di piombo nel breve valzer delle banderiglie, nell’ultimo atto svogliato e senza alcuna joie de vivre come quegli adolescenti che ciondolano stancamente per casa, silenzio per uomo e toro. Ponce dirigeva tutt’altro spartito al quarto del giorno: non che Aviador fosse un mostro di casta e potenza, ma al maestro bastavano le sue qualità di nobiltà ordinata per immaginare e proporre una faena elegante e impensabile ad un Adolfo vero, ché questo esemplare pareva sul serio un domecq mascherato in grigio. Il toreo aristocratico del valenciano trovava in quella carica disciplinata la materia prima ideale per esprimersi al suo meglio: dopo una picca carognesca che serviva a reprimere da subito e per sempre eventuali velleitarismi del toro, Ponce offriva al pubblico un’intepretazione aggraziata e signorile di toreo moderno, la figura rilassata e verticale, passi lenti e armonici che erano carezze più che schiaffoni, e quei tocchi a tempo di musica di una classe unica e alta. Fino alla chiusura plastica e squisita con il ginocchio a terra, il corpo dell’uomo perfettamente in linea con quello dell’animale, derechazos e naturali che univano grazia e dominio e un cambio di mano infinito. Una spada buona e un descabello secco scatenavano la prevedibile pioggia di fazzoletti bianchi, due orecchie e ovazione a un toro che ha collaborato perfettamente ma non ha portato un solo secondo di emozione, la metamorfosi albaserrada-domecq completata.
Non è stata la giornata di Curro Díaz. Il secondo del giorno, a conti fatti il migliore nel cavallo, lo impegnava un poco avendo il vizietto di stringere a destra, ma il sentimento di pericolo durava lo spazio di pochi istanti: il torero offriva soprattutto a sinistra un’andatura rettilinea che sapeva di poco e che deprimeva le residue volontà della bestia. Gran stoccata, questo sì, e ovazione. Peggio ancora con Madroño, l’unico dei sei poco disposto a farsi prendere in giro: finalmente un toro che chiedeva combattimento e non balletto, finalmente un toro con male intenzioni e corna usate come armi di offesa. Díaz si faceva presto vincere provando a toreare di maniera standard una bestia che invece richiedeva fermezza e carattere, Madroño prendeva il comando e sballottava il torero qui e là sui terreni a lui più congeniali. Fine dei giochi.
Un maggio accidentato ha restituito agli aficionados un Paco Ureña acciaccato e mogio, la copia pallida del torero tutto valore e abbandono che ha conquistato un posto speciale nel cuore delle frange più rigorose di appassionati. Cocinerito, il terzo toro, ha avuto diritto ad una sola picca e ad una faena contratta e confusa: peccato perché l’adolfo chiedeva di più. Molto toro, poco torero. Stessa impressione di rigidità e tensione anche con l’ultimo del pomeriggio: Malagueño prima schiacciava il murciano alle assi vincendo le veroniche di questi, poi spingeva con le reni il bastione equestre ricevendo per tutta risposta una picca cattiva, e anche in questo caso Ureña chiedeva il cambio di terzo dopo un solo contatto. Il lavoro con la muleta era ancora raggrinzito e tirato, paiono momentaneamente perse nel torero fiducia e mentalità: per riprendersi Ureña era dunque costretto a fare dell’Ureña, gambe unite e piedi inchiodati a terra, torsione innaturale della cintura, muleta perpendicolare. Tutto questo però assumeva un tono di artificiale scimmiottamento di sé stesso più che di vera spontaneità, lontani i pomeriggi madrileni in cui lo stesso toreo era somministrato con intensità e coraggio maiuscoli e indimenticabili. Il numero però, unitamente ad una spada spinta con rabbia nelle carni del toro, era sufficiente a convincere il bonario e festivo pubblico di Istres: due orecchie di poco peso, ma che serviranno forse a risollevare lo spirito di un torero genuino e importante.
Corrida floscia e davvero poco interessante di Adolfo Martín, nessuna emozione vera, due uscite in trionfo, tutti contenti.
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Istres, 15 giugno 2018. Corrida di Adolfo Martín di presentazione modesta ma sufficiente per la categoria dell’arena, tori vuoti, deboli, senza casta, senza morale. Enrique Ponce (silenzio/due orecchie), Curro Díaz (ovazione/silenzio), Paco Ureña (applausi/due orecchie)