Sotto il vulcano di Malcolm Lowry è uno dei principali romanzi del Novecento. Enorme la sua influenza sugli scrittori, progressivamente inarrestabile il successo fra i lettori forti. Pubblicato originalmente nel 1947 dopo un lavoro interminabile – dieci anni di scritture, revisioni, riscritture perdute – il romanzo racconta (dopo il primo capitolo che è una complessa porta d’introduzione alla storia) la giornata dei morti del 1938 a Cuernavaca, poco a sud di Città del Messico, nel libro Quauhnahuac, suo nome azteco. Il Console inglese Geoffrey Firmin ritrova sua moglie Yvonne dopo un’assenza che lo ha torturato nel dolore più infernale. Dal delirio alcolico in cui ormai sprofonda, il Console cerca di emergere accanto alla donna che ama, e i due uomini da cui è stato tradito. Poco dopo la metà del libro, Yvonne, il Console e suo fratello Hugh arrivano finalmente a Tomalín dove è in programma uno spettacolo taurino. Non si tratta di una corrida ma di un festejo popular di cui è difficile ripercorrere lo svolgimento. Ma in un libro che è un intrico di simboli e visioni, la presenza di un toro manso introduce innumerevoli elementi su cui la storia andrà dipanandosi. Ecco le prime tre pagine del capitolo 9, nella nuova traduzione di Marco Rossari che Feltrinelli ha appena mandato in libreria.
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Arena Tomalín…
…
Quanto si stavano divertendo tutti, com’erano felici, quanto erano tutti felici! Con quanta allegria il Messico se la rideva della propria tragica storia, del passato, della morte in agguato!
Era come se lei non avesse mai lasciato Geoffrey, non fosse mai andata in America, non avesse mai patito l’angoscia dell’ultimo anno, Yvonne pensò per un attimo che era addirittura come se loro fossero di nuovo in Messico per la prima volta; c’era quella stessa commovente calorosa sensazione di felicità, indefinibile, illogicamente, di un dolore che avrebbero superato, di speranza – e poi Geoffrey non era riuscito ad arrivare in tempo alla stazione degli autobus? – ma soprattutto di speranza, di futuro…
Un gigante barbuto e sorridente, con un bianco serape decorato con draghi blu cobalto avvolto intorno alle spalle, lo annunciava. Incedeva tutto impettito nell’arena, dove domenica si sarebbe svolto l’incontro di boxe, spingendo nella polvere… Forse qualcosa tipo il “Rocket”, la prima locomotiva a vapore.
Era uno splendido carretto delle noccioline. Yvonne riusciva a intravedere il piccolo motore ausiliario all’interno, che macinava furiosamente le arachidi. Che delizia, che bontà, sentirsi, nonostante tutta la fatica e lo stress della giornata, il viaggio, la corriera, e adesso la tribuna affollata e traballante, sentirsi parte dello sgargiante serape dell’esistenza, parte del sole, degli odori, delle risate!
Di tanto in tanto la sirena del carretto aveva un sobbalzo, la ciminiera scanalata mollava un rutto, il fischietto lucido strideva. Sembrava che il gigante non volesse nemmeno venderle, le noccioline. Semplicemente, era troppo forte il desiderio di mostrare il suo marchingegno a tutti: vedete, questo affare è mio, è la mia gioia, la mia fede, forse perfino (non gli sarebbe dispiaciuto darla a bere) una mia invenzione! E tutti gli volevano bene.
Stava spingendo il carretto, un trionfo di rutti e fischi, nell’arena proprio quando il toro si fiondò dentro da un’entrata sul lato opposto.
Un toro festoso, in fondo… Ma certo. Por qué no? Sapeva di non rischiare la pelle, doveva solo partecipare, stare al gioco. Ma la gioia del toro era ancora sotto controllo: dopo l’entrata esplosiva, cominciò a muoversi lungo il margine dell’arena, lentamente, pensosamente, sollevando comunque un polverone. Era preparato a godersi lo spettacolo come tutti – a proprie spese, se necessario – ma prima voleva che gli venisse riconosciuta una certa dignità.
Però alcuni spettatori seduti sulla recinzione grezza che racchiudeva l’arena quasi non si diedero la pena di sollevare le gambe mentre il toro si avvicinava, e altri, sdraiati a terra proni, mezzi dentro e mezzi fuori, come se avessero la testa infilata in una gigantesca gogna, non arretrarono di un centimetro.
Invece alcuni borrachos reattivi che gironzolavano nell’arena provarono prematuramente a saltare in groppa al toro. Ma non era così che funzionava: il toro andava domato in un modo particolare, c’era un metodo corretto, e così gli ubriaconi vennero accompagnati fuori, barcollanti, con le gambe molli, mentre protestavano, sempre allegri…
La folla, in generale più divertita dal toro che dal venditore di noccioline, cominciò ad applaudire. I nuovi arrivati balzavano con grazia sulla recinzione, per farsi vedere lì in piedi, in equilibrio miracoloso, sulla sbarra superiore. Gli ambulanti muscolosi, con un gesto sinuoso dell’avambraccio, reggevano pesanti vassoi ricolmi di frutti multicolori. Un ragazzino si era arrampicato in cima a un albero e si schermava gli occhi dal sole per scrutare il cielo sopra i vulcani al di là del bosco. Stava cercando un aereo, ma nella direzione sbagliata; fu Yvonne a scorgerlo, un trattino ronzante nell’azzurro abissale. Eppure c’erano tuoni in arrivo, da qualche parte alle sue spalle, un formicolio di elettricità.
Il toro rifece il giro dell’arena a un’andatura leggermente più sostenuta, sempre regolare, scartando solo una volta quando un cagnolino sfacciato gli abbaiò alle calcagna e gli fece dimenticare dove stava andando.
Yvonne raddrizzò la schiena, si tolse il cappello e s’incipriò il naso, guardandosi nel piccolo specchio traditore del lucente portacipria smaltato. Le ricordò che solo cinque minuti prima aveva pianto e la spinse anche a immaginare il Popocatepetl, più vicino, alle sue spalle.
I vulcani! Quanto rischiavi di diventare sentimentale con quei vulcani? O “vulcano”, meglio, al singolare: comunque spostasse lo specchietto non riusciva a farci entrare il povero Ixta, che, semieclissato, diventava quasi invisibile, mentre il Popocatepetl riflesso sembrava ancora più bello, con la cima spumeggiante sui banchi di nuvoloni neri. Yvonne si fece correre un dito sulla guancia, abbassò una palpebra. Era stupido aver pianto, davanti all’ometto sulla porta di Las Novedades, per di più, che aveva detto loro che erano “le tres y media al cacanto del gallo”, poi che era “imposiiible” telefonare perché il dottor Figueroa era partito per Xiutepec…
“…e allora proseguiamo fino a ’sta cazzo di arena,” era sbottato il Console, sguaiato, e lei s’era messa a piangere. Cosa almeno altrettanto stupida quanto essersi voltata dall’altra parte quel pomeriggio, non perché avesse visto niente, ma alla semplice idea del sangue. Ma era una sua debolezza, e ricordò quel cane moribondo per strada a Honolulu, i rivoli di sangue che rigavano il marciapiede deserto, e lei che avrebbe voluto essere d’aiuto, e invece era svenuta, giusto per qualche minuto, e poi era rimasta sgomenta di ritrovarsi tutta sola sul marciapiede – e se qualcuno l’avesse vista? – ed era corsa via senza dire una parola, solo per venire perseguitata dal ricordo di quella povera creatura abbandonata tanto che… Ma a che serviva pensarci? E poi non era stato fatto tutto il possibile? Mica erano corsi al rodeo senza prima assicurarsi che non ci fosse un telefono. E anche se ce ne fosse stato uno… Per quanto ne sapeva lei, qualcuno dopo la loro partenza s’era preso cura del povero indio, quindi adesso, a ripensarci bene, proprio non riusciva a capirne il motivo… Si sistemò un’ultima volta il cappello nel piccolo specchio, poi strizzò gli occhi. Erano stanchi, le giocavano dei brutti scherzi. Per un attimo aveva avuto l’orribile sensazione che alle sue spalle non ci fosse il Popocatepetl, ma la vecchietta che quella mattina giocava a domino. Chiuse il portacipria di scatto e si girò verso gli altri con un sorriso.
Sia il Console che Hugh stavano fissando l’arena con aria mesta.
Dalle tribune intorno a lei arrivò qualche buuu, qualche rutto, qualche timido olé, mentre il toro, con due timide ramazzate di corna a terra, allontanava di nuovo il cagnolino e riprendeva il giro dell’arena. Però niente allegria, niente applausi. Qualcuno di quelli appollaiati sulla sbarra ciondolava addirittura la testa, sonnacchioso. Qualcuno stracciava un sombrero mentre un altro spettatore cercava senza successo di lanciare a un amico un cappello di paglia, tipo boomerang. Il Messico non stava scacciando a suon di risate la sua tragica storia, il Messico si annoiava. Il toro s’annoiava. Tutti si annoiavano, forse da sempre. L’unico avvenimento era stato che il sorso di Yvonne sulla corriera aveva fatto effetto e adesso stava già svanendo. In mezzo a quella noia, il toro fece il giro dell’arena e, altra noia, finì col sedersi in un angolo.
“Tale e quale a Ferdinando…” cominciò Yvonne, quasi speranzosa.