Questo articolo è uscito in forma ridotta su L’Espresso che ringraziamo
Fu durante una lunga notte di settembre alla fine degli anni Novanta che si aprì per me la più meravigliosa voragine conoscitiva, quella relativa al regno animale, regno di cui, oggi più che mai, noi esseri umani spesso dimentichiamo di far parte. Mi trovavo in un piccolo paese spagnolo a nord di Madrid, El Espinar, dove ero arrivato per assistere ai festeggiamenti più attesi, quelli religiosi e laici a cui ogni cittadina spagnola consacra, almeno una volta all’anno, vari giorni di assoluta sospensione dalla realtà quotidiana. Fra le molte cerimonie che si tenevano, mentre l’autunno si spalancava in uno di quei freddi improvvisi che sotto alla Sierra de Guadarrama possono risultare assassini, quella notte venivano liberati nell’arena del paese giovani tori selvaggi. Sapevo che, in una delle tante forme di gioco con il toro ancora in voga in Spagna, si trattava di una sorta di sfida per ragazzi pronti a correre davanti alle corna per l’occasione coperte degli animali. Sapevo che si trattava di gioco inoffensivo e da buon anticorrida come ero stato educato, pensai che potesse essere interessante assistere. Nulla più. E così fu enorme la meraviglia quando mi ritrovai sconcertato, improvvisamente insensibile al freddo, impaurito e affamato come capita quando una grande rivelazione ci ha appena fatto visita. La meraviglia – questo lo sapevo bene dagli amati greci – è ciò che spinge gli uomini a lanciarsi nella conoscenza. Capii allora che si stava aprendo per me una strada importante, e capii anche che sarebbe stata lunghissima, forse infinita, ma senonaltro finalmente l’ora era arrivata. Mentre ragazzi più o meno consapevoli dei rischi si gettavano piroettando nell’arena per schivare e danzare con l’animale, ebbi subito la sensazione, infatti, che essere umano e toro condividevano, in quel gioco gestito come una cerimonia laica, qualcosa che a me era sempre sfuggito e che d’ora in poi mi sarei affannato a cercare: la mia, la nostra animalità. Una dimensione che sempre l’essere umano, animale dotato di logos (ossia linguaggio) secondo la celebre definizione aristotelica, aveva cercato attraverso il toro, animale totemico, sacro, una specie di dio animale, un ispiratore perenne di sfida conoscitiva.
Certo, molti elementi li avevo avuti di fronte agli occhi per anni, senza mai rendermene conto. Adesso li vedevo passare come tasselli da ricomporre. Il toro di Micene con le sue corna d’oro. Il toro del celebre affresco di Cnosso attorno a cui volteggiavano giovani come in quella notte. I tori dipinti nelle caverne preistoriche. Le statuine votive di tori che avevo visto in infiniti musei archeologici. Il toro di Mitra che mio padre mi portava a cercare nella cripta di San Clemente a Roma. Il toro dell’evangelista Luca che mi aveva ipnotizzato durante la mia fanciullezza cattolica nei mosaici cupi su uno dei quattro pennacchi della volta a crociera della chiesa. Il toro dei miti raccontati da mio nonno. Il toro di Picasso. E dunque il Minotauro. L’uomo che si fa toro, il toro che si fa uomo. Questa creatura terrificante e gentile, inumana e fin troppo umana, vorace e sola, dannatamente sola come in quella perla di racconto che Dürrenmatt aveva regalato al mondo guidato da chissà quali dèi. Il mistero del toro che avevo trovato in libri, versi, immagini, storie ascoltate e viste in tv. Il mistero di un animale che rappresenta il regno animale, che ne è il dio assoluto e che spinge l’essere umano all’assimilazione, alla perdita di sé, alla conquista. Cosa avrei trovato attraverso il toro?
In questi giorni, esce un libro che molte di quelle suggestioni sparse come lampi nella notte di El Espinar le raccoglie con ordine, alternandole a belle immagini che non compongono certo un quadro definitivo, ma spingono perlomeno a nuove, e in verità interminabili, riflessioni. Perché Michel Pastoureau con Il toro. Una storia culturale (Ponte alle Grazie, pp. 160, euro 20) accompagna il lettore in un veloce viaggio attraverso i millenni, raccontando i passaggi decisivi con cui l’animale totemico per eccellenza ha segnato la nostra storia culturale. Esperto di storia dei colori, storico medievista, specialista in simbologia, cattedra a Parigi, Pastoureau parte dalle grotte di Lascaux e Chauvet, dunque dal gigantesco uro, antenato del toro e di tutti i bovini domestici, e dalle ipotesi che tentano di spiegare quelle pitture vecchie trentamila anni. Difficile farsi un’idea. Addomesticato attorno al 10.000 a.C. per farne il bue domestico, ossia il castrato lavoratore di terra, tanto paziente quanto resistente, il toro domina la mitologia greca, è animale sacrificale per eccellenza e il suo culto in Mesopotamia e Egitto fa immaginare che sia l’animale più antico assimilato a una divinità. L’avvento del cristianesimo segna la più pesante crisi: il toro diventa creatura diabolica e gli attributi di Satana sono le sue corna, gli zoccoli fessi, la coda. Il bue ne prende il posto, lo scalza dal dominio dell’Evangelista Luca e s’intrufola addirittura nelle scene della natività assieme all’asino. Sono i bestiari medievali a rivalutarlo un poco, prima che, agli albori del Rinascimento, il toro riacquisti il suo antico prestigio. Il ritrovamento del Toro Farnese è un passaggio decisivo. Emblemi, araldi, zodiaco rinvigoriscono i suoi fasti. Finché la modernità sposta gli occhi sulla mucca produttrice di latte e gli artisti cominciano a sognare paradisi perduti, in una sorta di Arcadia scomparsa, o a volare sulla divinità ritrovata, spesso ispirati dalla tauromachia moderna: la corrida, arte che nasce a fine XVIII secolo.
Quel che manca a Pastoureau è il desiderio di scoprire il filo rosso che percorre questa storia compilata con gran fascino, ma un fascino disperso su accadimenti sconnessi. Forse ciò che allo studioso sfugge è proprio l’animale, la conoscenza dell’animale in carne e ossa. Nella notte di El Espinar quel che mi meravigliò non fu infatti la forza del toro ma la sua intelligenza, una sorta di acutezza che si raffinava con l’esperienza. Il toro entrava trionfante nell’arena, ma era sbadato, vanaglorioso, certo della propria supremazia. Via via che la stanchezza gli portava via la potenza, i suoi occhi si facevano scintillanti, pieni di un’acutezza, un’attenzione e una prudenza quasi umane. Lento e guardingo, l’animale selvaggio – o meglio, l’unico animale domestico allevato per rimanere selvaggio: il toro da combattimento – si faceva esperto e saggio, dunque sempre più pericoloso. Era allora che i ragazzi lasciavano l’arena e i mandriani riportavano l’animale nelle stalle.
Sono passati più di vent’anni e probabilmente tutto ciò che poi ho capito continua a girare attorno a quell’intuizione tanto semplice. Il toro è fra gli animali privi di logos quello che più di tutti, nella fatica e nel dolore, proprio come noi umani, cresce, matura, scopre di potersi migliorare aldilà delle proprie straripanti forze fisiche. Non è dunque il vigore sessuale che lo rende dio della fecondità o la maestà muscolare che lo rende dio della perenne giovinezza. Bensì l’intelligenza, ossia ciò che lo assimila all’animale dotato di logos, l’umano. Il quale umano, per l’appunto, con il toro gioca, combatte e si confronta perché è lui a sua volta che con il toro cerca di farsi animale. Quel che non capii nella notte spagnola era questo, in fondo. Che l’essere umano cede al toro la sua umanità e nel toro cerca la propria animalità. Supera, per dirla con il giovane Nietzsche, il principium individuationis che segna ogni essere umano nella propria individualità apollinea, e cerca di perdersi invece in quella superiore animalità dionisiaca in cui non valgono più le parole ma solo la vita e l’ebbrezza della vitalità. Ecco allora spiegato il motivo per cui nel dominio millenario del toro, la figura che più di ogni altra svetta fra quelle fornite dalla creazione artistica e intellettuale dell’essere umano è il Minotauro: l’uomo che si fa toro, il toro che si fa uomo. L’essere non reale ma non per questo irreale che meglio di ogni altro ci indica la strada per interrogarci sulla nostra animalità.