El Pana è l’apodo torero di un panettiere di Nizza Monferrato appassionato di Spagna e tori. La sua visione della tauromachia è esistenziale. Per questo, divenne eroe di un mio racconto (Mai, Ponte alle Grazie 2014) e spesso noi di Uomini e Tori chiediamo a lui di fornirci la sua interpretazione di certe svolte nel lavoro di toreri che amiamo o che non riusciamo a farci piacere. Fra le storie che hanno contribuito a accrescere la sua passione e la sua comprensione psicologica della tauromachia c’è indubbiamente il giorno in cui per la prima volta entrò in un’arena di Spagna, nella sua Segovia, per lavorare come banderillero in una becerrada. Questo è il suo racconto. (Matteo Nucci)
di Pietro Silvestrini
Il 10 agosto per il Pana, come per tutti gli abitanti di San Lorenzo, l’ultimo vero barrio di Segovia, era il giorno più importante dell’anno. Mentre nel resto del mondo coppie di innamorati si danno appuntamento sotto le stelle cadenti, in quel piccolo quartiere si festeggia il Santo Patrono. Solo chi ci è stato sa cosa significhi.
Ogni 10 agosto lo stesso rituale. Messa, processione, vermù, pranzo a casa Caballero, becerrada, merenda serale, fuochi d’artificio e concerto in piazza fino a fare mattino in qualche peña del quartiere.
Ma quel 10 agosto per il Pana non era come tutti gli altri. Quel 10 agosto il Pana per la prima volta fece il paseillo su una delle arene più belle di Spagna, si mise davanti a un becerro nella sua qualità di banderillero, attese che l’animale caricasse e accadde quello che lo avrebbe cambiato per sempre.
Le cose erano andate come sempre nella preparazione del gran giorno. Gli amici lo avevano accolto come uno di loro, ossia quel che da anni accadeva ogni volta che il Pana atterrava a Madrid e prendeva un auto in aeroporto per raggiungere, in meno di un’ora, con il fiato in gola, Segovia. Alberto, il più esperto del gruppo, lo aveva portato con sé a allenarsi e le prove erano durate quanto bastava. Poi le ore erano passate velocemente e il 10 agosto era arrivato.
Nel tardo pomeriggio il Pana entrò nell’arena dopo una notte insonne e un giorno digiuno, dietro al suo amico matador Daniel, con le gambe tremanti e lo sguardo basso, accompagnato come tutta la sua cuadrilla dagli amici e le amiche di sempre.
Il sole schiantava gli spalti e lui ebbe paura ad alzare lo sguardo e vedere nel tendido i volti di chi attendeva l’uscita degli animali. Era una paura che lui conosceva benissimo. Ci conviveva da un anno intero. Da quando aveva accettato di sfidare un animale pur di fare i conti con se stesso. Dunque riuscì a non guardare. Procedette lento, con gli occhi bassi, solitario.
Aveva aspettato giorni, mesi. Si era preparato in ogni modo. Ma in quegli ultimi minuti, tutto era come scomparso in un battito di palpebre. L’attesa era finita. Il becerro entrò in pista. Rapido, fiero, selvaggio. Come lo vide aggirarsi nel ruedo il Pana lo chiamò col capote e si nascose dietro al burladero, testò l’animale e fu assalito da un terrore adrenalinico che non aveva mai cnosciuto prima. Il becerro diede due giri della plaza attirato da qualunque cosa si muovesse. Poi rallentò la sua corsa, affaticato dal capote sapiente di Daniel e forse dal caldo miracoloso.
Ma i minuti erano diventati attimi. Mentre il Pana guardava con gli occhi lucidi dal callejón l’animale che avrebbe affrontato, entrò nell’arena il primo banderillero. Il becerro non si accorse di lui, all’inizio. Sembrava intento a pensare altro. Mai Pana aveva osservato un animale con tanta empatia, cercando di scoprirne il mistero. Quella strana sensazione scomparve appena l’animale si mosse, puntò il suo collega, gli corse incontro e per un istante sembrò che le sue corna stessero trapassandogli il petto. Il ragazzo si rialzò paonazzo e corse via. Era arrivato il momento del Pana. Non era più possibile attendere né rimandare.
Qualcuno gridò il suo nome. Forse Daniel gli diede una bottarella sulla spalla da dietro il burladero. Forse furono le gambe che azionate da qualche strano meccanismo lo spinsero. Il Pana entrò fieramente impaurito, con un passo tremolante e deciso. Giunse in mezzo all’arena e si piazzò di fronte al becerro che lo guardava con occhi incomprensibili.
Secondi che durarono anni.
Mentre il Pana aspettava e l’animale respirava chiedendosi quando fosse il momento di partire alla carica, qualcosa di incomprensibile accadde. L’animale smise di essere un animale. Aveva racchiuso nel suo sguardo lontano e ipnotico ogni paura del Pana, i suoi lutti, tutte le volte che era scappato anziché affrontare gli scarti che la vita gli aveva messo davanti.
Il becerro in quel momento divenne tutto ciò che il Pana non era riuscito a lasciarsi indietro, tutto ciò che mai era riuscito a superare. Era le sue paure infantili. Era le donne che non aveva avuto il coraggio di amare. Era gli amici che l’avevano abbandonato. Era la morte fisica che aveva contemplato esterrefatto e anche la morte dell’anima che aveva osservato senza muovere un dito.
Poi improvvisamente il becerro partì e il Pana fece l’unica cosa che sapeva fare bene. Lo schivò goffamente.
È probabile che, fuori da ogni consapevolezza razionale e in maniera del tutto inconscia il Pana, in quell’evento catartico, abbia fatto l’unica cosa imparata negli anni dei suoi dolori e dei suoi patimenti, delle sue sconfitte e delle sue rivincite. Come tutti poi raccontarono, infatti, il suo atteggiamento rivelò qualcosa di unico. Si prese gioco della morte, il Pana. La schernì, la derise. Probabilmente perché, a differenza della vita, era l’unica cosa che non lo preoccupava.
Quando il toro gli sfiorò le budella, nel caldo agostano di Segovia, Pana capì che l’animale si era portato via una parte del suo essere, una parte che lui stesso aveva odiato e amato, una parte che morì definitivamente e per sempre e che non avrebbe mai più ritrovato fra le sue cose più care o fra quelle più detestate.
Poi vennerò i gin tonic, la vuelta al ruedo, i fiori gettati dagli spalti, gli onori che solo una plaza de toros può tributare. Salì con i suoi amici verso la piazza fra gli sguardi, i sorrisi, gli abbracci e le strette di mano della gente, e si infilò a casa Paco. Poi venne la musica, e si ballò e si cantò come se il domani non dovesse arrivare, e l’alcol aumentava a ogni giro. Pian piano la gente si spostò al Jaleo, e lì fu altra musica, altri balli e altri gin tonic. E sorrisi, abbracci strette di mano, baci, donne da guardare, donne da amare.
Infine, improvvisamente, la musica si spense.
L’ordine costituito intervenne e interruppe bruscamente quella folle notte.
Il Pana alzò gli occhi verso il cielo e vide che si era fatto ormai giorno.
Era un nuovo giorno da vivere.
Ma nulla sarebbe mai più stato come prima