“In Spagna il duende trova un terreno senza limiti nei corpi delle ballerine di Cadice, elogiate da Marziale, nei petti di coloro che cantano, elogiati da Giovenale, e in tutta la liturgia della corrida, autentico dramma religioso, dove, al pari della messa, si adora e si sacrifica un dio”.
Chiunque abbia mai cercato di svelare anche solo un pizzico del mistero che aleggia attorno al duende sa da dove è tratta questa citazione. Lo sa per molte ragioni. Una delle quali è la seguente: questa frase, diversamente dal resto dello scritto che la contiene, appare limpida e chiara. Gioco e teoria del duende, sublime conferenza che Federico García Lorca scrisse in vista di una conferenza tenuta a Buenos Aires il 20 ottobre del 1933, è infatti un capolavoro di leggerezza, complessità, bellezza, segreto e pura poesia che proprio per questo è presente nelle biblioteche di tutti gli appassionati.
Ignoro se esista chi non ha riletto almeno una volta pagine in cui spesso il suono della frase evoca il contenuto molto più di qualsiasi costruzione sintattica dal significato chiaro e cristallino. Perché il duende, questo oscurissimo spirito trasfiguratore, agisce anche all’interno dello scritto di García Lorca che pretenderebbe di definirlo. Il duende è oggetto e soggetto di quelle pagine. E dunque, meglio di qualsiasi altra spiegazione più o meno dignitosa, Gioco e teoria del duende è assolutamente necessario.
Ma oggi, almeno per noi italiani, qualcosa cambia. È appena uscito un romanzo che racconta una storia lontana, una storia per nulla taurina e solo musicale, e che tuttavia in larghe parti – centrali da ogni punto di vista – parla di duende e lo fa con duende.
S’intitola Il maestro e l’infanta il romanzo di Alberto Riva (Neri Pozza, pp. 271, euro 18) che entrerà di prepotenza in tutte le vostre biblioteche. Racconta di un uomo – Domenico Scarlatti – e di una donna – Maria Bárbara di Braganza – e del loro incontro nell’estate del 1720 a Lisbona. Maestro di musica geniale e figlio del celeberrimo Alessandro l’uno. Ragazzina stravagante e dal senso musicale eccellente, figlia dei reali di Portogallo l’altra. Un rapporto musicale destinato a durare tutta la vita. Riva lo racconta con tocco unico, eccentrico per stile nella nostra letteratura, un tocco che sgorga dalle profondità musicali in cui è cresciuto e che lo rende capace di una scrittura/pittura impressionista in cui i cieli di Lisbona, la calura di Siviglia, i vicoli di Granada, le sale reali dei palazzi di Madrid diventano atmosfera in cui ci sembra di viaggiare, assolutamente fuori dal tempo.
Ma il cuore oscuro di questo libro, il segreto offerto a chi vuole iniziarsi al mistero, sta tutto nei racconti della musica gitana che a un tratto conquista Scarlatti stravolgendolo completamente. È nel 1729 infatti che Maria Bárbara viene data in sposa al primogenito di Filippo V, Fernando, principe delle Asturie. Filippo V tuttavia soffre di depressioni che ne fiaccano lo spirito ed è sua moglie, Elisabetta Farnese, a giostrare ogni cosa. Risoluta, rancorosa, spietata, “la parmesana” cerca per il marito residenze che possano rendergli la vita più gradevole mentre lei svolge e avvolge trame. Al seguito della corte, Scarlatti finisce così in Andalusia, fra Siviglia e Granada, dove scopre un mondo di magia musicale completamente inatteso. Mentre i suoi figli nascono e crescono, il maestro la sera è spesso fuori, nelle osterie di Triana, nelle cuevas di Sacromonte, nei bassifondi andalusi dove un altro tempo e un altro spazio si aprono.
“Quando suonate, tutti voi, c’è qualcosa che colgo ma mi sfugge, che capisco perfettamente e tuttavia mi è oscuro”
dice una sera Scarlatti a un vecchio e rispettatissimo gitano che tutti chiamano Tío Flores. Che cosa sia cerca di renderlo a modo suo, il maestro, con le parole che ha a disposizione:
“qualcosa che so, che so già, da qualche parte dentro di me”
“Come una verità?”
“Come una verità”.
Tío Flores sorride, ma in modo piuttosto grave: “Si chiama duende, señor Scarlatti”
“Suoni neri”. “Inesprimibile che si rivela”. “La questione è se c’è o non c’è”. Le frasi sfuggenti che conosciamo già da García Lorca si riprendono il loro terreno. Diversamente da quella conferenza, tuttavia, qui sentiamo suonare, gridare, lamentarsi.
Tutti, compreso il bambino, depongono gli strumenti e iniziano a segnare il ritmo con i palmi delle mani. La grotta si riempie di quello scalpitio, e di colpo, senza che si sia alzata dalla sedia, la donna emette un grido. Un grido che poi si scioglie in lamento. Un lamento che poi diventa melodia. Una melodia che si fa canto. Il maestro ascolta atterrito, profondamene turbato. Quando la voce è scomparsa, le mani hanno continuato a battere, sempre più piano, fino a confondersi con il silenzio.
Non troveremo in questo libro alcuna definizione. Ma ne cerchiamo poi una quando si tratta del dueño de la casa, dunque appunto il duende? Lo abbiamo sentito vibrare più volte, noi appassionati, che fosse un movimento di cappa di Morante de la Puebla, un abbandono al nulla di José Tomas, o un passo sconvolgente in cui i piedi di Paco Ureña sembrano introdursi nella terra primigenia. E aspettiamo solo di ritrovarlo, il duende, adesso che vola via lontano e la musica si perde, che sia dentro o fuori grotte umide odor di muffa, osterie in cui il legno è fradicio di vino, arene zuppe di sangue e merda di cavallo, arene che Riva non può descrivere per quegli anni e che pure cominciano a essere senonaltro immaginate perché la corrida a piedi proprio allora sta nascendo (“Prendiamo i tori, la passione per i tori che vede smuovere le bidella di quella gente…”). Aspettiamo di ritrovarlo, il duende, lo aspettiamo sempre e aspettando abbiamo trovato un libro pieno di duende, un gioiello. Il libro che ci mostrerà come quello spirito trasfiguratore si prese infine tutta l’anima di Scarlatti, la spinse al delirio e alla magia, all’ira e all’abbandono, fino a toccare e plasmare l’anima di una donna eccentrica, lungimirante, paziente e geniale, che da bimba veniva presa in giro per le stravaganze e che finì per regnare su mezzo mondo più di un decennio.