Chi ha trascorso almeno un paio di decenni tra le mura di un ospedale ha assistito a un cambio radicale della società in rapporto alla morte. Venti anni fa non erano rare le richieste di dimettere il morituro affinché potesse morire nel proprio letto, contornato dai propri cari, avere come ”ultimo luogo” un ambiente ricco di significato, simbolicamente narrativo, per chiudere idealmente il cerchio della vita. Oggi, invece, si assiste spesso a familiari che portano il morituro a morire in ospedale. Succede anche che possa capitare che un familiare si rifiuti di vedere il morto.
I mesi della pandemia hanno evidenziato la drammaticità della morte in solitudine, tra le anonime mura di un nosocomio. Una solitudine che ha reso quelle morti ancor più dolorose. Cosa c’entra la corrida con questo cambiamento? Con il rapporto che abbiamo con la morte? La corrida è una cerimonia che ritualizza la morte, che rivive e “risolve” il binomio uomo-natura. Gli Articoli di Matteo Nucci, L’uomo, il toro, la compassione, la pietà e Contro l’animalismo antiumanista, trattano questi due aspetti, il rapporto uomo-natura e la morte, o meglio, il tabù della morte. Perché alla base della “ospedalizzazione della morte” c’è il tabù della morte, e il mistero di una plaza de toros svela ciò che le mura di un ospedale nascondono.
Perché la corrida a molti appare anacronistica, per alcuni così intollerabile da odiarla e desiderare la morte del torero? Dove nasce questa distanza, questa incomunicabilità? Dove nasce questa assenza di distinzione tra animale umano ed animale non-umano? L’antispecismo è magari politicamente corretto, ma allo stesso tempo è fattore di impoverimento culturale, di appiattimento del senso di “umano” e di “natura”.
Tornando tra le mura degli ospedali forse possiamo avere una delle possibili risposte. La sempre più comune difficoltà nel gestire il momento della morte e, aggiungo, della malattia grave, ci costringe a interrogarci sul rapporto che abbiamo con il corpo. Il corpo del morto, del morente, del malato è oggi privato della sua sacralità, una sacralità non necessariamente religiosa. Il corpo del malato, se riconosciuto nel suo pieno valore culturale, non sarebbe mai sottoposto ad alcun accanimento terapeutico, non sarebbe mai usato per calmare i nostri sensi di colpa. Di frequente, in situazioni clinicamente molto drammatiche, si sente dire di fare tutto il possibile “e ancora di più”, oppure, “ma se fossi io al suo posto non lo vorrei, ma non voglio un giorno sentirmi in colpa per aver scelto per lui”.
Questo potrebbe superficialmente essere inteso come un semplice atto di egoismo, tratto non raro nelle nostre società, ma credo sia più una perdita del concetto che quella persona morente è un “corpo morente”, che il tempio sacro del corpo contiene in sé la vita e la morte. Non ci sarebbe vita senza la morte, ma la vita è vita perché c’è un corpo che poi muore. Si confonde l’immagine del corpo con il corpo, presi dall’apparire sempre belli, felici e forti. “Corpi narcisi” privi di mente, nel senso che ricadono nella falsa dicotomia mente-corpo. Il dualismo mente e corpo è morto, come il neurologo Antonio Damasio ha scritto nel suo L’errore di Cartesio: mente e corpo sono una cosa sola. E anche se la mente ci appare ancora per molti aspetti misteriosa, questa è fatta di natura fisica, è corpo stesso.
E ci si può spingere ancora oltre: un bellissimo libro di Emiliano Bruner, La mente oltre il cranio, ci spiega come anche il tatto delle nostre dita siano già un atto mentale. E ancora più in là: i libri di Matteo Meschiari, ben noto a Uomini e Tori, ci spingono fino a cogliere come il legame tra il nostro corpo e il paesaggio arrivi a essere “mente”.
Questa dimensione corporea, naturale (nel vero senso della parola) della nostra mente e della nostra vita, si coglie appieno nel rito di una corrida. La corrida non è una gara sportiva, il corpo del toro e del torero non sono corpi di atleti, ma rappresentazioni simboliche di animale umano e umano animale, di uomo e natura, che deve risolversi con la morte per aprire alla “nuova” vita. Non ha senso desiderare la morte del torero, anche senza mettere in gioco discorsi etici. Il binomio uomo-toro è un corpo mistico, ma reale. In ogni caso, il paragone tra sport e corrida ci può essere utile, proprio perché oggi lo sport ha assunto un ruolo non secondario nelle nostre società.
Il filosofo Robert Redeker, nel suo libro Lo sport contro l’uomo, si spinge ad affermare che lo sport è la religione dell’oggi, del capitalismo assoluto. Redeker riconosce nello sport un ruolo antropogenico, ruolo storicamente esercitato dalle religioni. In un certo senso lo sport sostituisce la lidia, generando significati simbolici che forse più si addicono alla società ipercompetitiva, individualista, politicamente corretta di oggi. Senza essere necessariamente d’accordo con le tesi molto estreme di Redeker, che vede lo sport come nemico dell’uomo, si può riconoscere che il successo planetario, globale, cattolico (nel senso di universale) ponga lo sport e di conseguenza il corpo dello sportivo al centro dell’attenzione.
Qual è il rapporto che oggi ha l’uomo con la natura? Anche andando oltre le importanti battaglie sul cambiamento climatico, oggi il concetto di natura è privato dei suoi significati e rapporti possibili con essa – poetici, religiosi, mistici, agricoli – che si eclissano nella nostra coscienza a vantaggio di una natura vista come campo sportivo. Certo esiste una narrazione sportiva che decanta la forza ecologica dello sport, ad esempio nel ciclismo. In realtà lo sport non è altro che un’espressione culturale dell’uomo che “usa” la natura. L’uomo “usa” la natura, lo ha sempre fatto, anche la corrida la utilizza, ma è l’assenza di “significato” che trasforma questo rapporto in anti-ecologico. “Significato” di rapporto uomo-natura che è essenza della lidia.
Oppure, pensiamo al corpo dell’atleta, modello e matrice dell’uomo moderno, oggetto preferito delle pubblicità. Paragoniamo il corpo dell’atleta al corpo del torero. Entrambi sono corpi ricchi di significati simbolici, sono, per dirla con gli antropologi, corpi politici. Ma quale dei due si avvicina di più a quel corpo morente “abbandonato” in ospedale? Il corpo del torero? Che scioglie la sua natura umana nell’animalità del toro per restituirne simbolicamente la vita, perché fa i conti con la morte. Oppure il corpo dell’atleta? Predisposto mentalmente ed atleticamente alla performance e così in sintonia con la produttività capitalista o con lo stakanovismo novecentesco.
Il corpo del torero è un corpo umano, illuminato dal traje de luces, adorato, modello inarrivabile, sì, ma derivato da una cultura umanista che si fa animale per valorizzare appieno la sua umanità, la sua natura originaria, un corpo che rispetta la morte e la natura dell’animale. Il corpo dell’atleta, invece, è un corpo al limite, artefatto (il doping assume tutt’altra luce in questa prospettiva), il modello di una cultura che mira al superuomo, efficiente, produttivo, un corpo “immortale” che supera i confini della natura stessa per dominarla. In questa prospettiva non c’è spazio per la morte, che non può che essere un tabù (cosa che la corrida impunemente svela e condanna).
Lo sport è un’espressione culturale umana, non necessariamente deve essere interpretato come laboratorio eugenetico, come mezzo di propaganda, come divertissement utile a vendere beni di consumo. Proprio perché espressione culturale può essere il miglior strumento per migliorare la salute generale della popolazione, per combattere la sedentarietà, per rispettare la nostra atavica predisposizione a muoverci, ma deve essere un corpo umano rispettato nella sua fragilità, fisica e psichica, protetto nella sua salute. Certamente portato al proprio limite prestazionale, ma di un corpo sano. Un concetto di limite che non può e non deve mai essere dissociato da quello di salute, conscio dei suoi limiti naturali, non desideroso di oltrepassarli. Un concetto di corpo rispettato nella sua sacralità, tempio di vita e morte, anche se al limite delle sue possibilità atletiche e mentali oppure quando al limite della vita.
Un corpo da rispettare nella sua sacralità anche quando è vestito di un traje de luces. L’antispecismo, che cerca anima e sacertà per la vita animale, non rischia forse di negare quella del corpo di un uomo nell’arena?
Kristian Perrone