Il capote di Pablo Picasso

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“Pablo è un uomo assai complesso, come tutto ciò che è semplice, come tutto ciò che è reale”. Si apre così un libriccino meraviglioso dedicato a Pablo Picasso fin dal titolo, Per Pablo (0 barra 0 edizioni, pp. 53, euro 6). A scrivere è un uomo che non sa scrivere e non sa cosa deve scrivere e non sa perché deve scrivere. E che finisce per scrivere pagine superbe. Forse perché l’unica cosa che sa è che l’arte a cui lui stesso si dedica “è il risultato di una difficile facilità, l’effetto di una tecnica che ci dona l’aria di essere naturali, addirittura di improvvisare”. Dunque qualcosa di molto simile all’artista a cui dedica le sue righe. Luis Miguel Dominguín ha trentasei anni nel 1960, quando Picasso gli chiede di inviare con urgenza qualcosa di scritto da pubblicare in apertura del suo album Toros y toreros. È sposato con Lucia Bosè da cinque anni e sta per diventare padre per la terza volta. È uno dei matador de toros più importanti di Spagna e certo fra i toreri è quello su cui circolano le storie più mirabolanti, relative soprattutto alle sue conquiste: Ava Gardner, Lana Turner, Rita Hayworth, Lauren Bacall, su tutte. Ma nel momento in cui scrive per Picasso c’è ben altro in ballo. Qualcosa che ha a che fare con l’amicizia, l’arte e l’immortalità.

Il pittore più famoso di Spagna, infatti, in Spagna non vive da molti anni. Quello che Dominguín chiama “il nostro ultimo Don Chisciotte”, è fedele al suo credo antifranchista e passa la maggior parte dell’anno in Francia, rimpiange la patria, e quando i toreri spagnoli si esibiscono nelle arene francesi, il più delle volte è sugli spalti. Tuttavia, a lui Dominguín non dedica i tori che uccide. Una volta, addirittura, manca l’appuntamento con il Maestro che gli ha chiesto di posare per lui. Del resto, a sua volta, ogni matador viene chiamato Maestro. Eppoi a Dominguín, a dispetto dell’età che li separa, ciò che più interessa di Picasso è l’amicizia. “Ho l’impressione che se io combattessi per lui e lui dipingesse per me, verrebbe meno la nostra relazione personale e ci lasceremmo trascinare sul piano professionale” scrive. Per poi aggiungere che quando Picasso gli mostra le sue opere nota nell’artista “un curioso pudore”, mentre, negli incontri dopo una corrida, lui stesso arriva a sentire “qualcosa che va oltre il pudore: la vergogna”. Sembra di leggere il Simposio platonico, quando Alcibiade descrive ciò che prova di fronte a Socrate. E invece si tratta del torero che sostiene di non saper tenere una penna in mano e di ignorare completamente il senso di quello che si trova a fare, lì al tavolino della sua tenuta andalusa. Ebbene, come Alcibiade riesce a dipingere “per immagini” la figura di Socrate, così al torero riesce quel che a pochi altri è riuscito: raccontare Picasso con immagini piene di una difficile facilità.

D’altronde, forse, come un perfetto esperto di maieutica, Picasso ha lasciato intuire al torero una grande verità: che non ci sono leggi né autorità, che ci si deve comportare come la propria arte ha insegnato, che si deve tirare fuori tutto da se stessi. A Dominguín, che gli ha chiesto conto di qualche nozione di pittura per diventare un miglior interprete, Picasso ha risposto: “Verrà il momento in cui ti renderai conto che, senza l’aiuto di nessuno, le nozioni che mi chiedi le avrai già apprese”. Il torero accetta la sfida e si lascia portare. Così scopre, scrivendo, di saper dire ciò che sente. E parte da un colore. Perché proprio come i toreri, Picasso padroneggia alla perfezione il primo colore con cui si affronta il toro. “Confesso di saper distinguere a malapena il nero dal bianco o il rosso dal blu” scrive Dominguín, “ma adesso che ci penso c’è un colore che conosco bene: il rosa. Il rosa di Picasso. Perché in fin dei conti io affermo che Picasso è Rosa. Rosa con il tragico del nero, la forza del rosso e più puro del bianco. Ecco cos’è lui per me”.

Come i grandi toreri spagnoli, poi, Picasso è animato dal “duende”, quello spirito trasfiguratore, indefinibile e sfuggente con cui ha giocato in pagine sublimi García Lorca e di cui si riappropria Dominguín. “È un soffio, dice qualcuno, è un nonsocché, lo si possiede o non lo si possiede, dicono altri; può darsi che sia la sorgente dell’arte, poiché sono giunto alla conclusione che importante è tutto ciò che è impossibile definire con esattezza”. Questo “duende” tutto andaluso, spesso gitano, secondo Dominguín, è il segreto di Picasso, delle sue “mani infaticabili e di continuo indaffarate”, del suo animo fanciullesco a settantanove anni, della Malaga andalusa dove è nato e che adesso è costretto a rimpiangere, e della terra di Castiglia che ha formato il suo stile di pittore, “una campagna talvolta così arida e così povera da avere come soli proprietari i filosofi, i poeti e i sognatori”. Quella stessa “Castiglia di pietraie, di grano e di uva da buon vino, di pascoli e di tori immobili nella loro posa scultorea” in cui Dominguín è diventato torero. Il simile conosce il simile, probabilmente. Il matador forse spera di essere posseduto anche lui dal “duende” di Picasso, ma non può concedersi il lusso di scriverlo. Si limita a raccontare quel che gli chiese il pittore: “Perché combatti i tori, Luis Miguel?” e la sua risposta dopo un breve silenzio: “Perché dipingi Pablo?” Un altro silenzio. Stavolta definitivo. “Si è quel che si è perché bisogna pur essere qualcosa” commenta Dominguín. E infine confessa: “Indosso il “vestito di luci”, il vestito torero, per accedere a qualcosa che mi trascende”.

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