La stagione taurina si è aperta ufficialmente. Ho seguito da lontano la feria di Olivenza che con il suo vitalismo trionfalistico ormai inaugura la stagione. Le immagini video del pubblico festoso in maniche di camicia si sono confuse con quelle mentali dei campi, gli allevamenti, i ruscelli, la primavera incipiente. Brevi saliscendi in un silenzio irreale. Insetti. Muggiti. Automobili rarissime. Ci penso sempre, all’Extremadura calda a marzo, quando Olivenza apre i battenti schiudendo le porte maestose della temporada. Penso ai piccoli paesi nei dintorni, manciate di case bianche nel verde assassino dei campi, strade sterrate e silenzio da siesta eterna. Penso alle vie pulite di fresco al mattino, alle notti fredde, e sempre mi si apre negli occhi una specie di istantanea sensoriale: un bar dove capitai con Marco Cicala cercando la finca del Juli, ormai dodici anni fa. Il bancone metallico sguarnito, l’odore di vino della notte precedente, le sedie da una parte e lui, Cicala, che mentre brindavamo con la prima caña della giornata, disse: “Ecco perché dobbiamo tornare sempre e per sempre in Spagna”. Eravamo felici, la feria ancora non era cominciata, si respirava solo attesa. Nulla di più glorioso.
Ho finito di centellinare il libro di Marco Cicala proprio in questi giorni. Eterna Spagna (Neri Pozza, pp. 431, euro 18) è un libro meraviglioso che tutti gli aficionados dovrebbero leggere. Molti lo avranno già fatto perché è sugli scaffali delle librerie italiane da un anno abbondante. Gli altri sono avvisati. Non è un libro di tori, benché alcuni capitoli siano espressamente dedicati all’argomento taurino. Ma è un libro di Spagna, di ogni Spagna antica e moderna, di quella Spagna eterna che tutti noi conosciamo e amiamo, ormai perfettamente consapevoli della sua inseparabilità dal mondo che è il cuore della nostra ossessione. Si ripete spesso, in questi anni bui di infantilismo animalista e mundillo taurino sempre più propenso al suicidio, si ripete spesso che non è la Spagna a difendere culturalmente la tauromachia bensì la Francia. È vero. Librerie, iniziative, attenzione ai veri protagonisti, cura dei particolari. È vero. Sono i francesi a seguire la politica più intelligente. Ma parliamoci chiaro: la corrida è Spagna. È Mediterraneo spagnolo. Quell’imprendibile mistero che Eterna Spagna rincorre costantemente in ogni capitolo – che sia dedicato a un pittore, un poeta, un attoruncolo, un politicante, un re, una puttana, uno sportivo, un cantante, un giallista, un industriale e a tutti quei protagonisti noti e ignoti che riempiono i sessanta capitoli di questo volume imperdibile.
Ho conosciuto Marco Cicala più di quindici anni fa grazie al venerdì di Repubblica e all’uomo che lo ha diretto fino alla sua morte, un maestro assoluto: Attilio Giordano. Inviato, lettore onnivoro, amante di Céline, penna sapientissima, pazzie e idiosincrasie, Cicala già allora, appena poteva, se ne andava in Spagna. Con la sua furia instancabile di piccolo segugio letterario, ha sfornato una quantità di reportage spagnoli difficilmente misurabile. Reportage di ogni genere che, con il mestiere tipico dell’inviato abituato a condensare in immagini brillanti e paradigmatiche il magma che si trova in mani, Cicala è sempre riuscito a condensare nelle poche pagine che le riviste possono concedere. Ma il materiale di quelle storie era davvero infinito. E finalmente è disponibile. Attenzione, però. Non troviamo qui semplici ampliamenti di storie pubblicate in precedenza. Ci sono storie assolutamente inedite che il cronista letterario si è trovato chissà come in mano. E ci sono storie note ai suoi lettori ma completamente riscritte per creare un libro dall’uniformità stilistica indubbia, dominata dal carattere tipico di Cicala: l’ironia corrosiva, la battuta assassina, il disgusto verso qualsiasi moda.
A quali mode del resto dovremmo uniformarci mentre seguiamo quella linea rossa che, nonostante i tempi, continua a costituire la vera anima di Spagna e di quei paesi in cui la Spagna si è perduta – fra colonie, regni, guerre culturali e così via? “Non so, in definitiva, se gli spagnoli siano, o forse siano stati un popolo ossessionato più degli altri dalla morte. Ho l’impressione che, fatta tara degli eccessi morbosi, abbiano più che altro cercato di guardarla negli occhi per meglio apprezzare la vita. “L’oblio della morte è una diserzione dalla vita” diceva Unamuno. E d’altronde al macabro delle pitture di Valdés Leal, ai Cristi straziati e alle Vergini lacrimose, o al trionfalismo funebre del franchismo, si potrebbero contrapporre altrettanti se non più esempi di segno contrario. A cominciare dalla morte riconciliata di Don Chisciotte, tra le scene più alte della letteratura universale”. Sempre lì, insomma, si finisce. Dove la morte non è una fine – per dirla con il García Lorca di Gioco e teoria del duende.
E insomma, malati di Spagna, unitevi. Cicala è più malato di tutti noi. Fra malati ci s’intende e i malati più malati sanno darci la giusta ricompensa. Leggere questo libro è come un calmante. Ma uno di quei calmanti che non placa affatto. Rilassa i muscoli e vi libera nelle viscere quel verme inestirpabile che è il virus di cui soffriamo. Qualcosa sta cambiando inesorabilmente, in questi ultimi anni – lo sentiamo ripetere ovunque. Non è questione strettamente taurina. Ha a che fare con l’Europa, la globalizzazione, la crisi. Vero. Ma leggendo Eterna Spagna questo terrore verrà sovvertito. Non sarà nei capitoli dedicati a Pamplona o a Manolete, a Bergamín o a Sánchez Mejías che troverete sollievo. Ma in quelli più inattesi, fra improvvisi consigli culinari, tappe gastronomiche, fugaci apparizioni dello spirito trasfiguratore, chicche che appaiono dove nulla lascerebbe presagirlo, scrittori ignoti e ritrovati. Fino ai nostri scrittori che meglio hanno colto l’essenza di quell’eternità che in quanto tale non può finire mai. Uno a caso. Leonardo Sciascia. Autore dell’aforisma più paradossalmente semplice e vero. “Avevo la Spagna nel cuore e l’ho ancora”.