GRANADA. Che cosa succede a un uomo che un martedì di maggio vola nel vuoto dal ponte più alto sul fiume Guadiana, viene soccorso vertiginosamente da un gruppo di pompieri che lo portano all’ospedale più vicino in stato di ipotermia, recupera in pochi giorni fra lo sconcerto di familiari e amici, eppoi torna alla sua professione due settimane dopo e la sera di un sabato di giugno raggiunge il culmine della sua carriera, quasi fosse stato condotto alla realizzazione di se stesso proprio da quell’atto trasfiguratore che per poco non lo aveva perduto? Me lo domando da giorni senza risposta e me lo domandavo ancora, stamattina, guidando fra le rocce inondate della luce tesa di Andalusia dalle parti di Casabermeja. Il primo toro Osborne era comparso su uno sperone isolato fra i prati già secchi e non avevo resistito al richiamo. La Venta sulla strada, colazione. Fra gli astanti al banco, un ragazzo vestito di tutto punto scolava quattro birre senza alcol ghiacciate, facendo su e giù per il locale. A che andava incontro? Quali demoni lo aspettavano? L’ho lasciato lì che chiedeva un altro tercio. E mentre Antequera si avvicinava tentavo un paragone con Ferrera, il dio artistico che a Madrid ha trasformato la paura in trionfo, la morte in vittoria sulla morte.
Chi ignora tutto circa la forma di tauromachia che ancora celebriamo nel suo massimo splendore, la corrida, potrebbe rispondere molto semplicemente alle mie questioni. Antonio Ferrera, torero delle Baleari, quarantenne, vive sul limite del nulla, nell’esagerazione della sfida, passa dunque facilmente dall’istinto suicida a quello che nel suo mestiere si converte in istinto omicida. Potrebbe soddisfarvi una risposta simile. Ma non stanno così le cose. In realtà, Antonio Ferrera, in quanto torero, è innanzitutto artista. E proprio nell’arte forse noi possiamo cercare la risposta alla sublime serata in cui ha vinto il toro che ognuno di noi porta dentro, diventando ciò che è. Eppure l’arte non spiega tutto a meno che nell’arte non si veda la sfida con cui da sempre noi facciamo i canti. La sfida con qualcosa che sembra fuori di noi e invece è nascosto nelle nostre viscere per natura. Sfida alla morte, dunque. Alla nostra mortalità.
Antequera è una cittadina di bellezza sublime. La sua plaza de toros è immersa in un prato verde. Impianti di irrogazione automatica li bagnavano al mattino quando pagavo il custode del parcheggio lì davanti, pensando alla figura che potrebbe aiutarci a svelare l’enigma di Ferrera. Il suo nome è Paco Ureña e la sua nobile malinconia di uomo vinto dal destino ma che non rinuncia a combatterlo, il destino, perché forse il destino non c’è, o è un altro rispetto a quello che immaginiamo, be’ quell’aspetto sublime di uomo dipinto dal pennello del Greco, noi lo amiamo da sempre. Da quando, una sera a Madrid, ci fece piangere di commozione con gesti così lievi e naturali e austeri e solenni che tutta la tragedia si dispiegava nel tessuto dell’inganno con cui intrappolava il toro e liberava se stesso. Cosa accade a un uomo come Paco Ureña che ha cercato il trionfo nella plaza più importante del mondo sempre sfiorandolo, sempre vedendolo sfumare, sempre vedendolo dissolversi quando era a un passo, eppoi in un venerdì di settembre a Albacete affronta un toro che gli infila il corno in un occhio, perde la vista per sempre, eppure torna al suo mestiere di artista e cerimoniere laico del rito tauromachico e, quando rientra a Madrid è pronto, e la sera di un sabato finalmente caldo di giugno, nove mesi dopo la tragedia, si lascia cadere nel destino e raggiunge una completezza sublime e riempie di estasi la plaza e annichilisce e trionfa, di un trionfo assassino e pieno e definitivo che spinge Madrid a dichiararlo trionfatore assoluto della feria di San Isidro, nella sua edizione più riuscita di questo millennio? Cosa capita a un uomo?
I campi volavano ai lati della strada che proietta quotidianamente migliaia di automobili e tir verso Granada. Pueblos di case bianche di calce scintillano sotto tegole antiche o lamiere. Al bar Kuwait di Moraleda de Zafayona, a ora di pranzo, si fermano uomini, donne, bambini finalmente in vacanza. Mangiavo porra, la versione locale del gazpacho, e chiacchieravo del torero che nel pomeriggio avrebbe sostituito Pablo Aguado, rivelazione della temporada, nella prima corrida della Feria del Corpus di Granada. Una cornata a Madrid nel momento della verità, una cornata dura, ha impedito a Aguado di essere qui e l’impresario della plaza, José María Garzón non ha scelto uno qualunque per rimpiazzarlo. Non gli basta José Tomás, il richiamo che ha già messo sottosopra la città dal giorno in cui è stato annunciato. Garzón è un tipo di impresario esigente e David de Miranda gli è parso l’uomo giusto. Che succede a un ragazzo di ventiquattr’anni che il 27 agosto 2017 si ritrova in terra privo di coscienza perché il toro lo ha gettato in aria provocandogli una lesione cervicale gravissima nell’arena di un paese che il destino vuole si chiami Toro (Zamora)? Cosa spinge quel ragazzo miracolato perché per giorni si è temuto che possa rimanere tetraplegico a tornare nell’arena, conquistarsi l’alternativa dalle mani di José Tomás e un venerdì di maggio toccare il cielo a Las Ventas uscendo in trionfo?
Destino Granada. La plaza era semipiena alle sette in punto quando suonavano i clarini. Biglietti in giro, comunque, era difficile trovarne. Sono stati venduti tutti perché il torero leggendario che torea una volta all’anno è atteso qui sabato. Paseillo. Tori di Nuñez de Tarifa per José Garrido, Joaquín Galdos e David De Miranda. Tori fiacchi, opachi, mansi. Noia. Dopo il terzo, merenda. Si sbocconcellano panini. Passano di mano in mano cartate di salame, pizza, pasticcini. Il sole inizia a calare. Garrido si affanna con il suo secondo toro, tenta qualcosa di buono, di bello, di significativo. Il toro si muove di più rispetto agli esemplari scadenti che sono scesi in pista prima di lui: è nobile, ma la noia ancora impera. Poi accade quel che sempre deve accadere nelle nostre vite. Il corno dell’animale che abbiamo dentro aggancia la parte del corpo che sbagliando abbiamo esposto. Garrido vola nel cielo blu di Granada. Il traje rosa palo e oro macchiato di sangue di toro vola nell’aria frizzante, si avvita fra urla mostruose che salgono in cielo come grida di uccelli. E il torero cade, si schianta, a fatica si rialza, è umiliato e frustrato e zoppicante si aggira fra i subalterni e indignato con se stesso digrigna i denti. Ha sbagliato. Ha creduto troppo. Ha sottovalutato l’enigma della mortalità. Ha cercato bellezza senza arte e senza sfida. E ora si trasforma. Ecco cosa capita a un uomo. Si trasforma. Aggressivo, svuotato, offeso, Garrido improvvisamente è un altro, è una furia animale e tira fuori tutto quel che ha per riscattarsi. Il pubblico si consegna a lui e si unisce all’uomo e al suo toro. Ne viene fuori una lotta viscerale di minuti intensi, musica di banda che corre a perdifiato fino a una stoccata perentoria, la morte secca dell’animale e il trionfo.
Cosa succede a un uomo? Che cosa significa destino? Cosa siamo venuti a fare a Granada?
Ognuno ha il suo toro.