Clavel Blanco, un toro per la storia

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(ph) François Bruschet

Esattamente nove anni fa ad Arles si dava una preziosa corrida concorso, altisonanti i nomi dei sei allevamenti in gara: Partido de Resina, Conde de la Corte, María Luisa Domínguez y Pérez de Vargas, Hubert Yonnet, Prieto de la Cal, Cuadri. Quel pomeriggio già di per sé così rotondo e intenso verrà ricordato, senza dubbio per sempre, per quel toro maestoso uscito in terza posizione: Clavel Blanco, sangue pedrajas, sulla coscia la A sghemba dei maríaluisa. Semplicemente uno dei più grandi tori che abbiano mai calcato la sabbia di un’arena di Francia. Qualche giorno dopo, ancora scossi, scrivevamo queste righe.

* * * * *

GAROFANO BIANCO

Partiamo dalla fine.
Arles, venerdì 11 settembre 2009, ore 18.50 minuto più minuto meno, e d’altronde c’entra poco. Un signore canuto e piccoletto si alza dal posto che da sempre occupa sui gradini dell’arena, lì appena sopra alla porta dell’arrastre, si toglie la coppola grigia e con un gesto solenne ed assoluto la lancia a planare sulla salma di quel toro che le mule stanno trascinando lentamente, a raccogliere gli applausi commossi di seimila persone scosse dall’immensità della sua bravura. Quel signore che illumina un pomeriggio ormai già storico con quell’eleganza d’altri tempi, capace da sola di restituire alla tauromachia la grandezza tutta di cui sa essere capace, è Hubert Yonnet, allevatore, titolare di un toro che pure parteciperà a quel concorso, commosso e rapito come tutti da quell’animale selvaggio che, ora vinto, sfila per un’ultima volta sotto gli occhi della gente.

Arles, venerdì 11 settembre 2009, qualche decina di minuti prima.
Clavel Blanco, di María Luisa Domínguez y Pérez de Vargas, marchiato con il numero 38, 610 chili, nato un qualche giorno del settembre 2004, esce dalla cella.
Ci siamo, mi sussurra il mio vicino venuto dall’oceano apposta per lui.
E’ l’unico esemplare, l’unico, che la sua ganaderia farà combattere quest’anno: i suoi fratelli pedrajas non li vuole nessuno, troppo duri, coriacei, selvaggi, né toreri né imprese ne vogliono sentire parlare.
Clavel Blanco, l’unico che quest’anno porterà sul dorso la divisa gialloblu esce dal corridoio nero e attacca la sua sinfonia.

Garofano Bianco, che nome bizzarro per un toro che è la summa di tutta l’immensità della bravura, insieme poesia e brutalità, selvaggio e nobile di una nobiltà regale, generoso fino alla morte, signore e guerriero.
Garofano Bianco, che delizia sapere che nel cuore degli allevatori c’è ancora spazio per il romanticismo, che oggi altri avrebbe battezzato quel toro con appellativi roboanti e stucchevolmente moderni, no, Clavel Blanco semplicemente, perché è bello così.
Garofano Bianco, prezioso e luminoso fiore di quel pomeriggio, un toro selvaggio che buca i sentimenti di quei seimila fortunati seduti attorno a lui, gioca con le loro trippe, rivolta l’anima, dà lacrime ed eccitazione.
Garofano Bianco, decine, centinaia di migliaia di brividi sulle braccia di noi eletti, giù lungo la schiena, la testa che gira, le mani che abbracciano il volto, qualche occhio più lucido del normale, qui e là. In mezzo a quel buco nero ci sono i suoi ultimi minuti di vita, noi testimoni ogni minuto più consapevoli della grandezza del suo passaggio in quella cittadina provenzale così dolce e calda alla luce del tramonto, privilegiate presenze ad una funzione unica e maestosa.
La cronaca di quei momenti non restituirà il vortice inaudito di elettrica emozione, le vertigini, ma sarebbe ingiusto esimersi dal racconto, ingrato non celebrare, egoista tenere per sé e non scrivere, per conoscenza di chi non c’era.

Clavel Blanco entra sulla sabbia e l’arena romana di Arles ha un nuovo ed eterno re: dieci, dodici, quindici passi e il toro di María Luisa prende possesso del centro della pista, il trono più adatto.
Lasciamo il giro lungo le assi a cercare l’uscita alla plebaglia domecq, lasciamo le cornate di rabbia schiumante dritte nel burladero ai novigli più imberbi, Clavel Blanco qua è Sua Maestà il Toro, il padrone, l’arena è sua.
Al centro, statuario, lo sguardo sicuro a sfidare tutto, tutti, i toreri, le assi, i fotografi, le mura, il presidente, noi.
Quindici falcate normali e autoritarie per stabilire le gerarchie.
Arriva la capa di Lopez Chaves, il Garofano ci si incolla a piccoli ed inesorabili passi, l’uomo rincula impotente, il toro è lì due spanne davanti e non molla, una lenta ma testarda colata di lava più che l’urgenza di un fiume in piena.
Lopez Chaves abdica, superstite, già provato.

E poi entra Quince, che porta in sella Juan Luis Rivas.
I due si riveleranno eroici attori protagonisti di una sceneggiatura densa ed intensa, in un grande momento di tauromachia autentica, di alta equitazione , di ammirevole coraggio umano. Entra il cavallo con il suo picador, e l’11 settembre per una volta diventa una data sublime, e tutti i garofani che hanno riempito i cimiteri per quegli altri tragici 11 settembre trovano oggi riscatto, dignità, bellezza.

Clavel Blanco vede il cavallo, niente ha più importanza.
Niente: le cappe, gli uomini a bordo pista, le voci dei subalterni, il brusio che sale dai gradini, niente ha più senso, niente esiste più.
Solo quel cavallo, là a dieci metri.
Si mette in posizione da solo, il Garofano, gli occhi fissi sulla fortezza, e parte.
Bum.
Quince è coricato, Juan Luis Rivas atterra un paio di secondi dopo.
Clavel Blanco lascia che i due si ricompongano, e prende la rincorsa.
Seconda entrata, un carroarmato.
Alla terza entrata già la scissione tra anima e corpo in noi è definitiva, la prima tra gli angeli, il secondo a soffrire e godere, ammirare e vibrare.
Il cavallo resiste, Rivas suda, il Garofano torna indietro e riparte.
Quarta volta sotto il ferro della picca.
Al quinto assalto niente è più al suo posto, le leggi della fisica, i battiti del cuore, gli occhi di chi hai di fianco, tutto si mischia, siamo in un altro dove, chissà quale.
Suona la musica, sfiatano le trombe e gli ottoni ma non per le sinuosità della muleta, non per il vortice dei passi di toreo artistico, suona la musica perché il direttore d’orchestra (lui, non il presidente) ha deciso che quel momento merita di essere tributato come si deve, quegli istanti di assoluto vertice emotivo ed animale vanno celebrati e resi immortali.
Suonano i membri dell’orchestra nelle loro giacchette rosse, e dalla parte opposta dell’arena Juan Luis Rivas, abbarbicato sulla sua montatura, resiste come può al quinto assalto del Garofano, ancora forte, anzi più forte di tutti gli altri, poi il castello si fa di carta, le fondamenta cedono e l’uomo precipita, Clavel ha vinto, il pubblico è lì in piedi con le mani che si spellano ma con l’anima chissà dove, e dall’altra parte dell’arena rispetto alla fanfara c’è ora dunque quell’altro rosso, il sangue di Clavel Blanco andato a morire cinque volte sotto il ferro della picca e che ora torna al centro dell’arena.
Si gira, punta ancora il cavallo che López-Chaves però fà uscire: è troppo per lui, è troppo per noi.

C’è chi si tocca, chi si abbraccia, chi non smette di parlare e chi resta muto, tutti riprendiamo a respirare.
Vengono le banderiglie, ridicole nella loro fragilità rispetto a quel monumento vivente, e il toro segue con cura e rabbia gli uomini fino alle assi.
Il maestro prende la muleta, il volto tirato, gli occhi infossati e lucidi.
Si comincia la giostra, e bastano tre passi per capire che Clavel Blanco non si è dimesso e non cerca eredi, il signore della pista è lui e lui solo, ancora, e tutto il resto va spazzato via.
Cinque picche, tre rincorse ai banderilleros e la forza è ancora tutta lì, testa bassa e via dentro la stoffa rossa, a destra il Garofano si infila come una locomotiva nella galleria, sbuffa, attacca, sbuffa, attacca.
López-Chaves è valoroso, i bieeen! che si alzano dalle gradinate questa volta escono dal cuore e non dalle gole dei personaggi prezzolati che affollano il contropista, è un gioco drammatico e ipnotico, e il protagonista è uno solo.
Il Garofano bianco fa volare per aria l’uomo due o tre volte, gli mangia il terreno, ma quello resiste, insiste, officia: la comunione nell’arena è totale, la funzione si sta compiendo, siamo tutti nei polsi del torero e nei muscoli del toro, Arles in quel momento ha un solo respiro.
Un solo cuore.
Il Garofano Blanco sta scrivendo la storia.

Poi tutto si ferma e tutto si tace.
La spada entra nel corpo di Clavel Blanco, proprio lì a due passi dalla coccarda gialla e blu, la sua la sola che quest’anno si sia aggrappata sul dorso di un toro, e benedetta è questa esclusiva.

Il Garofano ha finito di vivere, ma i grandi non muoiono così, come tutti gli altri, i grandi lo sono anche nella morte fino all’ultimo respiro.
E allora Clavel Blanco ci fà l’ultimo dono di sè, il più straziante ed il più maestoso, il suo un ultimo omaggio a noi, a Domingo López-Chaves , a Quince e a Juan Luis Rivas, alla tauromachia tutta.
Il Garofano Bianco, un metro di spada nei muscoli e tra le vene, va a morire in mezzo all’arena, là dove è stato re, i passi sempre più incerti e la vita sempre più lontana dal suo corpo.
Il Garofano Bianco va a morire in mezzo, da solo, in un ultimo ed eterno atto di bravura, in mezzo senza cercare nessun riparo, c’è chi si commuove, chi trema, chi applaude.
Il Garofano Blanco celebra sè e la grandezza della corrida.

Clavel Blanco, di Maria Luisa Perez de Vargas, marchiato con il numero 38, 610 chili, nato un qualche giorno del settembre 2004, è stato immenso, ci ha fatto grandi, è morto.

Ode.

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