BARCELLONA. “Libertad, libertad, libertad”. Il grido echeggia ancora mentre escono i toreri portati in trionfo. Piange il vecchio addetto all’arena. Piange un appassionato torturando tra le mani nodose il vecchio berretto. Piange una ragazza che ha dipinto di rosso le labbra per la serata d’altri tempi. E chissà quanti ancora piangono. Molti si abbracciano. Moltissimi, come è abitudine in Spagna, si fanno un cenno: ci si rivede al bar. Tutti gli altri, fra i ventimila che hanno riempito la Monumental, la plaza de toros di Barcellona, prima che sia chiusa per sempre, si sono divisi in due gruppi. Chi è in cerca di una reliquia si è gettato nell’arena per raccogliere l’ultima sabbia torera. Chi vuole gridare al resto della città il suo orgoglio, segue il corteo improvvisato con cui si portano sulle spalle i toreri trionfanti fino ai rispettivi hotel. Un rito che pareva seppellito nel passato di una Spagna profonda e remota e che è tornato in auge proprio nella Spagna più moderna del nuovo millennio, quella della Catalogna che ha scelto di abolire la fiesta nacional – come qui è chiamata la corrida.
Sarà difficile per chiunque – appassionati o meno – dimenticare quest’ultima tarde. Dopo la serata del sabato in cui tre star del toreo avevano dato il meglio di fronte a tori andalusi di uno degli allevamenti principali di terra iberica, è stata la volta del più grande torero esistente, il matador austero e ieratico che ricorda Manolete: José Tomàs. Chiuso in una ricerca interiore di cui non fa parola in nessuna intervista, votato a sfidare ogni volta la morte mettendo il corpo dove altri hanno paura di mettere la cappa o la muleta, e sfuggito, solo un anno fa, a una cornata che lo stava uccidendo a Aguascalientes, in Messico, Jose Tomàs ha incendiato definitivamente l’arena. Stavolta però anche la sfida alla morte del grande matador si è ridimensionata nell’eccezionalità dell’avvenimento, nella solidarietà che ha unito il pubblico e gli stessi toreri, prima che l’ultimo toro corresse sulla sabbia della Monumental di Barcellona: nome (premonitore) Dudalegre, 567 chili, nato nel marzo del 2007 a Puerto de la Calderilla, nell’allevamento El Pilar, dalle parti di Salamanca. Accanto a Jose Tomàs, il vecchio Juan Mora dallo stile antico, e il catalano Serafin Marin, più volte in lacrime durante la serata.
“Hanno resuscitato un morto” mormora Ruben Amon, esperto taurino, autore di libri tauromachici e giornalista per El Mundo. “Qui a Barcellona la tradizione si era troppo indebolita per resistere agli attacchi di chi ha giocato sulla corrida per allontanarsi dalla Spagna. Ma se è la società a decidere che i tori non interessano più è un conto. Altro conto è se viene imposta un’abolizione. La corrida qui stava per morire. Adesso la passione è rinata”. In effetti, di antitaurini in giro se ne sono visti pochi: qualche cartellone che in inglese chiedeva ancora di fermare l’inutile barbarie e foto di tori morti nell’arena come il vessillo di una battaglia che deve continuare in tutto il resto di Spagna. I politici che hanno cavalcato l’onda animalista perlopiù hanno taciuto. Duran Lleida, portavoce del CiU, uno dei partiti catalani che con i suoi voti ha fatto passare la legge popolare abolizionista, ha ostentato indifferenza. A chi gli domandava come avrebbe passato la domenica sera ha risposto di non sapere se fossero in programma concerti. Del resto è noto a tutti che agli occhi dei nazionalisti catalani la corrida ha sempre rappresentato il simbolo della Spagna colonizzatrice. Lottare contro di essa significava lottare contro la Spagna. Al punto che l’abolizione non ha affatto incluso i correbous, spettacoli popolari in cui il toro viene ucciso senza la ritualità della corrida.
Chi oggi rimpiange il tempo perduto nella difesa della tradizione e della dimensione artistica e culturale della tauromachia spagnola, ha però paura piuttosto per il futuro. “Dopo il voto sono partite molte iniziative con cui stiamo cercando di unire le forze per difendere la fiesta nacional” dice Amon, che negli ultimi tempi è diventato il coordinatore del cosiddetto G10, una specie di gruppo con cui i toreri più celebri cercano di essere ascoltati dalle autorità. Perché se Barcellona è persa, il pericolo è perdere la Spagna intera. In fondo, l’abolizione catalana riguarda le poche corride che si svolgevano ormai soltanto a Barcellona. Non è una ferita mortale. Ma mortale può rivelarsi se è vero che la Catalogna ha sempre costituito l’avanguardia di Spagna. Il timore che i divieti possano estendersi ha gettato nel panico un mondo da sempre abituato a non mettersi in discussione. La battuta di un celebre torero di inizio secolo, Rafael El Gallo, circola come un talismano tra uomini che spesso snocciolano cifre in pesetas. “A Parigi non ci sono corride? E cosa si fa allora di domenica?” Niente è eterno però. E così, impresari, allevatori, toreri, appassionati e tutto il grande carrozzone taurino, cercano forme di unione laddove la piccola polemica interna era abitudine quotidiana. La prima conquista è stata far passare la responsabilità delle corride al Ministero della Cultura. Piccolo passo verso quello a cui ieri sera i manifesti invitavano sugli spalti della Monumental: chiedere, con un’iniziativa popolare, che la corrida sia considerata bene di interesse culturale, proprio come capita nella vicina Francia.
Ma perché questo accada non soltanto a parole, il mondo dei tori deve rinnovarsi. Non basta infatti la difesa con cui grandi intellettuali sono intervenuti nel dibattito catalano. Il filosofo della Sorbona Franciss Wolff ha dato alle stampe un libro intitolato 50 ragioni per difendere la corrida. Fernando Savater ha pubblicato Tauroetica. Mario Vargas Llosa ha ritirato il Nobel con la montera (il copricapo torero) in mano e ha scritto articoli di fuoco in difesa della corrida. Non si contano i pareri. Ma i pareri non bastano. Come notano tutti gli appassionati, quel che serve è innanzitutto rigore nel mantenere l’integrità del toro selvaggio, una specie antichissima, assai lontana da quella che conosciamo come “toro domestico”, e che sarebbe altrimenti estinta se non l’avesse tenuta in vita la tauromachia. Ma bisogna finirla con privilegi e trucchi, i piccoli mezzi con cui un mondo antico ha replicato se stesso, per pregi ma anche e in gran parte, difetti.
Per sopravvivere bisogna cambiare. Aprendo un varco a un futuro che è difficile immaginare. Questa è la sfida. Del resto, per ora, la proibizione catalana ha risvegliato antiche immagini che parevano dimenticate per sempre. “Una volta” racconta Rubén Amon “quando Franco era al potere, i catalani erano costretti a varcare il confine per andare al cinema a vedere Buñuel. Adesso saranno costretti a farlo per andare a vedere i tori, nella Catalogna francese o in tutte le città dove le corride sono conservate e esaltate dai Francesi”. Insomma, l’abolizione, per quanto politica, ha suonato la sveglia. E per ora, almeno qui a Barcellona, l’orgoglio è davvero rinato. Lo si può vedere al Bar Breton, davanti alla plaza de toros, dove gli appassionati negli ultimi anni usavano ormai ritrovarsi nei sotterranei, come carbonari costretti a nascondersi. Immagini di tori e toreri sono ricomparse dietro al bancone posseduto dai cinesi. C’è addirittura una cartolina che recita “Barcelona ciudad taurina”, e la testa di un toro chamato Eligido, toreato qui tre anni fa. Ma non sono che cimeli. Da mettere accanto a queste due serate che sono già ricordi. Per la strada si sente parlare spagnolo, catalano ma anche francese, tedesco e italiano (più di una sessantina i nostri connazionali arrivati qui con il Club Taurino Milano e il blog “Alle Cinque della Sera”). “Sono qui per difendere la possibilità di assistere a un rito, un rito laico antico ma anche moderno, al cui centro sta la morte” dice Giovanni Porzio, romano. “Nel nostro mondo la morte è tabù. Per questo anche la corrida deve diventarlo”. Saluta in fretta. Corre a seguire José Tomàs che con l’aria triste del torero malinconico e dedito a corteggiare la morte alza le braccia nella notte chiara e accenna un sorriso mentre i lustrini del vestito torero scintillano improvvisamente sotto la luce di un lampione.