Corrida: verità e menzogna

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Tutto è verità e menzogna nel mondo del toro. Non troverete nessun aficionado, nessun esperto, nessun torero o allevatore o impresario che anche dalle profondità di un carattere malevolo non finisca per ricorrere alla vetta inarrivabile della verità. La verità del resto può caratterizzare il torero, le sue mosse, il suo stile e la sua capacità di uccidere. Ma può caratterizzare anche l’animale e la sua casta. E può caratterizzare l’arenero e il monosabio, il critico e lo spettatore, il musicista della plaza e ovviamente il rappresentante dei toreri, l’impresario della plaza, e anche il turista e il neofita giunto ai tori per caso magari per la prima e ultima volta nella sua vita. La verità è il discrimine per chiunque partecipi al mondo del toro. Tanto che chiunque giudicherà i partecipanti a questo mondo secondo il discrimine della verità.

Ma che cos’è la verità nei tori? Niente è più sfuggente, complesso e contraddittorio della verità. Come nelle nostre vite, così in quell’arena paradigmatica delle nostre vite che è la pista in cui uomo e toro si confrontano in un’eterna sfida e un eterno abbraccio. Libri, articoli, arte di ogni genere: qualunque forma abbia preso la riflessione sui tori, non esiste essere umano che non si sia affannato a rincorrere quella verità e definirla. Sempre invano. Perché come nelle nostre esistenze così nel toreo, la verità è irraggiungibile e indefinibile e si può dire di essa soltanto una cosa con certezza: ossia che si mescola, si confonde e si intreccia alla menzogna e solo così da essa può in qualche modo distinguersi.

Limitiamoci al gesto più classico che osserviamo nell’arena ogni volta che assistiamo a una corrida. Il momento in cui il torero chiama il toro alla carica. Per chi non sa nulla e magari è per la prima volta sugli spalti, si tratta comunque di un momento unico, di cui è percepibile in maniera immediata la potenza. L’uomo apre il petto, grida o avanza silenzioso, magari sbatte i piedi per terra o salta e, catturata l’attenzione dell’animale, si prepara nella sua posizione a ricevere la corsa del toro. Infinite sono ora le variabili. La distanza dall’animale. La posizione nell’arena. La collocazione dell’uomo sulla linea di carica. Il corno che sfiorerà il ventre del torero. E infinite, davvero infinite altre questioni decisive. Ma quel che è certo è che l’uomo ha in mano un panno e quel panno è chiamato inganno perché deve ingannare, ammaliare, stregare il toro.

Come ingannerà il suo animale il torero? Lo ingannerà con verità o senza verità? Ecco uno dei luoghi paradigmatici della verità nel toreo. La verità non si mostra senza menzogna. La verità s’intreccia alla menzogna. E tuttavia mentre si intreccia a essa, da essa deve distinguersi. Si dice in genere, per esempio, proprio restando a questo caso che il discrimine sta nel modo in cui il torero mostra l’inganno all’animale. Se lo mette davanti a sé aprendo il suo petto e il suo inguine all’animale, allora l’inganno è con verità. Il torero carga la suerte come si dice nel gergo taurino. Ossia, se impugna il panno nella destra, solleva la gamba destra e infila il piede destro nella sabbia avanzandolo, disponendosi di faccia al toro, mostrando dietro al panno il suo petto, il suo cuore e soprattutto il triangolo di Scarpa, l’inguine dove passa la femorale e dove è questione di vita o di morte. Sono infiniti i trattati che ci descrivono questo movimento e che ci spiegano in cosa consista la sua verità rispetto alla falsità del torero che con l’inganno inganna, inganna toro e spettatori, e resta fermo di profilo e non carga la suerte e dietro all’inganno con cui ammalia il toro non c’è altro che aria e il suo inguine è ben protetto e il suo cuore anche.

Eppure. Eppure ci sono momenti nell’arena in cui un torero che non carga la suerte mostra più verità di uno che invece carga la suerte. Com’è possibile? – si dirà. Cosa è successo? Difficile spiegarlo. Ma noi abbiamo percepito, osservando il giovane di profilo, abbiamo percepito la sua verità. Mentre nell’altro torero che ha seguito i canoni e ha rispettato le leggi non abbiamo percepito che ripetizione insulsa e mestiere e inganno. Perché? Hai voglia a studiare, leggere, discutere. Hai voglia a cercare nei trattati e nei manuali dove osserviamo linee, frecce, disegni accompagnati dal tentativo strenuo di descrivere la verità per come essa è distinguibile dalla menzogna. Non se ne esce. Non c’è scampo. Possiamo leggere e studiare quanto ci pare ma ogni volta, in quell’arena che è come la pista delle nostre vite così contingenti e casuali, ogni volta verremo sorpresi e colpiti da qualcosa che non ci aspettavamo. Qualcosa che ci mette in crisi, ci fa cambiare idea, ci spinge sul limite della disperazione perché no, non ci eravamo accorti, non sapevamo, non potevamo immaginare che tanta verità si celasse in un gesto che…

Uscendo dalla plaza, ancora scossi, in estasi o annoiati, pieni di brividi o delusi, discuteremo con chi abbiamo al nostro fianco. Andremo nel nostro bar preferito a cercare di capire a parole quel momento effimero e per sempre perduto e mai più recuperabile neppure in tv (no non c’è televisione che tenga in quell’arena che è la vita) su cui dissentiamo, perché io ho sentito questo, lui ha sentito quest’altro, lei ha pensato che, e la sua amica ha detto no, e il padre invece sì, e il nostro vicino invece forse però. Discuteremo, ci confronteremo, magari troveremo un punto di accordo e ci sembrerà di aver commesso un reato perché non è poi così vero che abbiamo visto e sentito la stessa cosa e siamo certi che l’altro con cui condividiamo un’impressione abbia in realtà sentito qualcosa che a noi è sfuggito mentre a lui è sfuggito quel qualcos’altro. Non la finiremo mai di ripensare e ridiscutere. Eppoi aspetteremo un’altra corrida, altri sei tori, un’altra serata per metterci in cerca della verità e della menzogna, per assaporare l’emozione che ci danno menzogna e verità nel loro inesauribile balletto.

E cosa ci dice tutto questo se non che la conoscenza, l’ansia della conoscenza è il centro esatto di quel mondo che chiamiamo corrida per distinguerlo dal mondo infinitamente ampio che è la nostra vita di cui la corrida non è che il teatro più paradigmatico? Certo. Nient’altro ci dice tutto questo. Perché in ogni angolo di un’arena, in ogni anfratto di una corrida, in ogni particolare di questo spettacolo immenso, finiamo per trovare qualcosa che ci colpisce, sorprende e meraviglia (e diceva Bergamín che soprattutto nelle corride più brutte e noiose possiamo scoprire qualcosa che ci meraviglia). Qualcosa che dunque ci spinge a rincorrere la verità perché – lo sappiamo fin da Platone e Aristotele – è la merviglia la molla che spinge l’uomo a conoscere, a farsi amante della sapienza e dunque filo-sofo, a farsi cercatore di verità.

E del resto cercando la verità non smettiamo di metterla in crisi e ridiscuterla e riconsiderarla. Non smettiamo di interrogarci e leggere. Non smettiamo di complicarci la vita. Distinguendo, divagando, discernendo. Adottiamo dunque il metodo greco antico del dividere e discernere, discutere e criticare, che prese piede sovvertendo ogni certezza e ogni dogma e dando inizio alla storia della civiltà occidentale. Quel metodo è diventato celebre in una vaghissima forma definitoria che ripetiamo spesso senza rifletterci: senso critico. Ossia il senso della critica, del sottoporre a critica, del non dare nulla per scontato, del tornare costantemente a domandarci se sia vero o meno, se sia bene o no. Il senso della critica è il senso della crisi. Scegliere e andare avanti. Ma disposti a tornare indietro.

Alle origini della nostra civiltà c’è un toro. Innamorato della bella Europa, Zeus opera una della sue più straordinarie trasformazioni. Esce dal mare apparentemente docile e fra le ragazze che colgono gigli di mare solo Europa lo guarda negli occhi e si lascia avvicinare. Il toro esita, è maestoso e dolce. Europa gli tocca il muso, lo affianca e gli sale a cavalcioni e mentre gli carezza le corna come mezze lune dorate, Zeus la porta via, in una corsa folle a segnare la fondazione del nostro continente. È la rincorsa della verità. Una rincorsa inesauribile perché la verità non si raggiunge eppure non si smettere di cercarla e continuamente ridiscuterla, senza arrendersi mai. In fondo, nell’arena dei tori mediterranei che rappresenta la grande arena delle nostre esistenze noi scopriamo uno dei grandi torti di quel filosofo italiano che dominò il Novecento: Benedetto Croce. Non è affatto vero che noi non possiamo non dirci cristiani. Noi non possiamo non dirci greci.

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