Morte nell’arena

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La corrida è una forma di tragedia in cui si celebra, senza simbolismi, la morte del toro, a prezzo della possibile morte del torero. Fra le innumerevoli definizioni della moderna forma di tauromachia (al Settecento si deve risalire per individuare le prime manifestazioni di corrida a piedi in Spagna), la formula hemingwayana metterebbe d’accordo un po’ tutti.

Non esiste corrida senza morte. Il cosiddetto “momento della verità”, ossia il culmine dei tre atti da cui è composto il rito tauromachico, è quello in cui l’uomo deve somministrare la morte all’animale, ovvero quello in cui più che mai rischia egli stesso di essere colpito dalle corna del toro selvaggio ormai sapiente e pronto solo a uccidere.

Ma è facile dimenticare la morte. Facilissimo poi rimuoverla, in un’epoca in cui non si può più invecchiare e non si deve più morire. Un’epoca in cui poiché resta impossibile sfuggire alla fine, la morte viene nascosta, oscurata, velata.

Per questo, fra le altre ragioni evidenti, suscita tanta impressione il destino a cui è andato incontro Víctor Barrio nella plaza de toros di Teruel. Nell’epoca della diretta, possiamo seguire immagini che ci spiegano la dinamica di un epilogo. È stato il vento, uno dei peggiori nemici dei toreri, a scoprire il corpo dell’uomo mentre affrontava un toro di nome Lorenzo. Il corno dell’animale lo ha sollevato in aria, poi lo ha cercato in terra e ne ha trafitto il cuore.

Ma non è questo ciò che ci sconcerta. Il fatto è che era dal 1985 (quando a Colmenar Viejo un toro chiamato Burlero colpì il cuore del giovane torero El Yiyo), che non moriva un matador de toros nelle arene spagnole. Di incidenti e cornate è percorsa ogni stagione taurina. Aiutanti dei matadores ne sono morti fra Spagna, Francia e America, ma che il pericolo supremo colpisse un matador pareva storia antica e passata, come se lo specialismo della chirurgia taurina, la velocità nei soccorsi e la modernità in genere avessero definitivamente purificato la corrida dalla morte che ne resta il centro indiscutibile.

“Gli dèi hanno sete” ha scritto sul País, uno dei più attenti opinionisti, Rubén Amón. Nella stagione più critica per la corrida, al centro di un dibattito di crescente polemica sulla sua attualità (bandita da cinque anni a Barcellona e divenuta oggetto di contesa politica – Podemos tra i movimenti più contrari), già due toreri sono morti in Perù e Messico (tra cui El Pana, torero bohémien di 64 anni).

Víctor Barrio, ventinovenne di Grajera, provincia di Segovia, ha ricordato che il pericolo estremo non risparmia l’Europa. Se la discussione sulla tauromachia resta da tempo immemore legata alla morte dell’animale e alla possibile morte del torero, è necessario ricordare a coloro che in queste occasioni esultano (internet libera i più selvaggi istinti, in casi simili), che la morte dell’uomo non significa salvezza per l’animale. Il toro, durante una corrida, viene sempre ucciso per farne carne che finisce in macelleria. L’unica possibilità di salvezza dell’animale è l’indulto. Ossia quando toro e torero si esaltano vicendevolmente nella corrida perfetta e l’animale viene giudicato valido non come carne da banco (per quanto pregiata) ma come padre di altri tori selvaggi (il toro da corrida è bestia di razza del tutto distinta dal toro domestico).

Non capita così raramente, ma è il momento della verità a restare il centro di un rito antico di cui molti chiedono l’abolizione. Risuonano oggi le parole di García Lorca, quando per spiegare la sua terra scriveva: “In tutti i paesi la morte è una fine. Arriva e si chiudono le tende. In Spagna no. In Spagna si aprono”.

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