Morante: torería dell’assenza

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di Matteo Agostini

Morante de la Puebla è sempre stato il motore della mia afición, quasi fosse la chiave d’accesso alla bellezza e a quel sogno differito che è il toro. Morante, che è un secolo di tauromachia, forse due, in un solo corpo; Morante, che riesce a ottenere passaggi impensabili, a inventare una faena dal niente; Morante, il torero capace, per dirla alla Carmelo Bene, di eccedere il toreo medesimo; Morante, che trionfa sconfiggendo fantasmi, dèmoni e detrattori; ecco, per me questo è sempre stato il senso di tutto, il termine di confronto di ogni viaggio in Spagna, di ogni olé, di ogni orecchia invocata, strappata, rimpianta, applaudita, di ogni momento di paura o di esaltazione, di ogni prima e di ogni dopo il sacro intervallo della corrida.

Lo scorso 12 ottobre, a Las Ventas, però, è accaduto l’imprevisto per eccellenza. Imprevisto non nel senso che non fosse prevedibile, ma perché nessuno di noi credeva di dover vivere un momento del genere. Morante, alla fine della sua migliore temporada e al culmine della carriera, ha annunciato il ritiro dalle arene; ed ecco che la mia afición si è trasformata, per spirito di adattamento, in una teoria (o torería) dell’assenza. 

Quasi non potevo credere a quello che stava succedendo, ma in fondo neppure a ciò che era successo prima. Da quella corrida di inizio maggio in cui Morante dimostrò al pubblico sivigliano di essere tornato nella sua miglior versione, in questa storica stagione abbiamo visto compiersi un toreo trascendentale, talmente assoluto da non essere quasi riferibile all’esperienza. Morante non è nato così, come Minerva dalla testa di Giove con le armi già forgiate, ma è arrivato a questo, a 45 anni e portando il peso di una malattia psichica che ciclicamente lo affligge, attraverso un percorso lento, fatto evidentemente di una conoscenza sempre più affinata ed esatta del toro come di tutta la tauromachia del passato. Gregorio Corrochano domandava: è più importante la conoscenza del toro o della suerte? Morante, quasi un secolo dopo, è arrivato a dominarli entrambi, visto quanto vicino si fa passare l’animale, o con che rapidità intuisce le possibilità di torearlo o meno (e per questo rimediando spesso fischi), e per come è in grado di sorprendere ripescando passaggi dimenticati di capote e muleta, che non sono semplici omaggi di gusto antiquario, ma incorporazioni in uno stile, appunto, trascendentale, la cui ispirazione, per usare il linguaggio lorchiano, viene insieme dall’angelo, dalla musa e dal duende. Corrochano stesso oggi non scriverebbe di Joselito, lui sì ragazzino prodigio, ma del genio de la Puebla, sollevando nuovi, forse più complessi interrogativi. 

Morante, che insomma ha compiuto ciò che pareva irrealizzabile: farsi passare il toro vicino come mai prima d’ora, sempre e in qualsiasi arena, rimanendo per questo contuso, logorato e infine ferito; conseguire una regolarità con la spada e insieme una varietà e ricchezza artistica senza pari; conquistare Siviglia, Madrid, Jerez, Salamanca, Pamplona; riempire le arene più e prima di chiunque altro; riuscire non in una sola di queste cose, ma in tutte insieme nell’arco di un solo anno; ecco, Morante ha deciso, forse più d’istinto che non con un piano preciso in testa, di non poter più ripetere tutto questo, e di diventare anche lui quello stesso passato al quale costantemente guarda, da torero classico e uomo di tradizione. Ci costringe, in forza dell’afición, a guardare indietro, alla sua assenza, al suo non esserci, sin dalla prossima volta che un aereo per Siviglia o per Madrid ci prometterà di sognare il toro. 

“Se acabaron los toros”, scriveva Guerrita alla morte di Joselito, e in molti in Spagna hanno paragonato questa situazione al senso di vuoto lasciato all’epoca dalla scomparsa del Re dei toreri. Certo, il toro è sempre stato e resta il centro di tutto, il rituale e lo spettacolo devono continuare, ma in questo momento ciò è per noi possibile solo perché il non più andrà a sostituirsi al non ancora, la latitanza rimpiazzerà la promessa, nel timore che a riempire quel senso di felice spossatezza dopo ogni corrida ci sarà sempre meno la gioia di esserci e sempre più il ricordo di esserci stati. A tal proposito, ci sovviene quello di una feria di San Miguel del 2022: tre giorni noiosi, insulsi, quasi desolanti; ma con una singola, irreale faena a un debole toro di Matilla nella quale Morante decise di ipnotizzare il tempo. L’attesa per una volta soddisfatta, e la spensieratezza di cominciarne una nuova. Portandosi via tutto questo, è come se Morante ci obbligasse, per fortuna ancora giovani di afición, a ricominciare tutto daccapo.

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