Rafael de Paula: fra il divino e l’abisso

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Lo abbiamo conosciuto leggendo Bergamín. Immaginavamo, nelle nostre letture disperate, molto prima che il mondo digitale permettesse di vedere, sapere, quasi toccare, con tanta velocità, ciò che alla fine quasi non ha più interesse sapere, immaginavamo la sua lentezza, la lentezza della cappa e della muleta, la lentezza dell’animale, la lentezza del gesto, e quindi la musica silenziosa che saliva dall’arena, soppiantando la musica della banda, fino a esplodere in uno sconquasso interiore, nelle lacrime, nell’estasi orgiastica che – questo lo avevamo provato, innamorandoci – solo l’incontro fra uomo e toro permette, dando senso all’ultimo rito laico del nostro tempo. Lo immaginavamo e sognavamo. Poi le immagini hanno preso il sopravvento, assieme alla nostalgia di ciò che non abbiamo mai vissuto, perché no, Rafael Soto Moreno, famoso come Rafael de Paula, noi non lo abbiamo visto toreare mai. 

In uno dei primi viaggi a inseguire il mistero del toreo, con i miei amici di allora, guidando verso Ronda, immersi nel verde che si allargava sotto alla roccia tutta attorno alla provinciale, stabilimmo i nomi da assegnarci nella nostra immaginaria cuadrilla. Curro Romero e Rafael de Paula ce li litigammo a lungo prima di virare su nomi sconosciuti e improbabili come El Lobo e El Gato. Erano l’arte che inseguivamo, quei due? O rappresentavano gli alti e bassi, le sublimi vette e gli orridi abissi, in cui immaginavamo che fosse inevitabile cadere, nella nostra furia poetica adolescenziale? Ridevamo, non vedevamo l’ora di lanciarci in pista nell’arena dove tutto era nato, e dove Rafael de Paula si fece torero per la prima volta, in un giorno di maggio del 1957.

Gitano puro di Jerez de la Frontera dove era nato nel 1940, lo stesso giorno di mia madre, il 12 febbraio, il piccolo Rafael era cresciuto respirando flamenco. Musica, ritmi, ma soprattutto gesti, gesti del corpo che è anima, e dunque in primo luogo un modo di vita. Raggiungere quella grazia che si unisce all’assoluto della bellezza. Niente su cui riflettere con un briciolo di ragionevolezza. Semmai quell’impalpabile brillìo in cui si manifesta ciò che è sempre di là del velo. L’irrompere del divino che è solo in noi. La manifestazione di uno spirito corporeo indicibile se non con la nostra improvvisa, ineffabile, effimera, padronanza della casa che abitiamo. Ossia il duende.

Era pieno di duende Rafael de Paula. Il momento più alto lo ha ricordato Antonio Lorca nel suo bel pezzo di pochi giorni fa, rifacendosi alle parole del suo maestro, Joaquín Vidal. Era il 28 settembre del 1987 e a Las Ventas, di fronte a un toro di Martínez Benavides, Corchero di nome, tutto improvvisamente cambiò: “Il toreo era l’arte di dominare il toro finché Rafael de Paula lo ha trasformato in sinfonia” scrisse in una delle sue inarrivabili critiche Vidal “Mai il toreo ha toccato simile bellezza; mai il toreo, negli ultimi decenni, ha raggiunto la grandezza a cui lo ha portato Rafael de Paula con la sua faena di muleta al toro-torazo, cornalón y astifino, che è uscito, come toro di riserva, per quarto”.

Di trionfi, del resto, fu piena la sua carriera, come di fallimenti, sconfitte, e sublimi fughe, dando all’arte gitana dell’ espanta’, su cui Max David ha scritto pagine divine, una nuova vita, forse l’ultima. Ma se queste pagine di tauromachia ormai storiche, raccontate, intraviste, studiate, lette, restano per sempre in quell’aria che respiriamo continuando a seguire toreri capaci talvolta di replicare il sogno, come è stato in questi ultimi tempi con Morante de la Puebla o José Tomás, quello che abbiamo continuato a amare di Rafael de Paula è stato fino a oggi un atteggiamento talmente eccentrico, in tutto ciò che ha vissuto, da apparire folle, romanzesco, a tratti talmente inimmaginabile da risultare estraneo anche alla letteratura, in fondo incapace di replicare ciò che solo la realtà a volte ci mostra, superando di gran lunga la fantasia.

Non sono tanto i giudizi tauromachici quelli che ci hanno appassionato in questi anni quando ascoltavamo parlare Rafael de Paula. Lo sdegno per i toreri a lui successivi risparmiava pochissimi (“uno che un po’ sa toreare è José Tomás” sentenziò quando il matador era all’apice). Ma semmai gli interventi pubblici talmente stralunati, sconvolgenti, provocatori, da permetterci di capire davvero quel detto ormai celebre di Belmonte: “si torea come si è”. E come è stato Rafael de Paula lo ha manifestato fino all’ultimo, con il tormento che si faceva luce e a tratti abisso. Con la parola tagliente che tentava di replicare la sua ricerca di altezze sublimi e a volte finiva per immergersi nelle oscurità più misteriose dell’umano. Perché aveva cercato di agguantare la luce tante volte come un Icaro flamenco. E come tale era caduto. Finendo due volte in galera.

È morto nel giorno dei morti. Gli sia lieve la terra. Come lieve egli stesso ha saputo trasformare la pesantissima cappa di fronte a tori di pietra. Come lieve ha reso la parola anche quando il peso del suo corpo lo spingeva in voragini dal fondo oscuro. La levità musicale. Quella musica silenziosa con cui ci stregò un giorno, dopo aver stregato un poeta.

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