Quasi due anni fa, viaggiai in Colombia mettendomi sulle strade di certi misteri con cui cerco di fare i conti da anni e che in quel Paese immenso, variegato, dalla storia complicatissima, mi sembrava di poter approfondire meglio che altrove. Una delle questioni attorno a cui mi arrovello sempre è il rapporto dell’essere umano con l’animale e dunque il rapporto dell’essere umano con la propria animalità. Partire da Bogotà e dal Museo dell’Oro dove sono in mostra capolavori assoluti delle civiltà precolombiane era un obbligo. Iniziai a scriverne qui, in un reportage che, per ragioni estrinseche all’argomento e contingenti, non ho mai portato a termine. La questione del resto implicava anche una ricerca nelle tradizioni tauromachiche colombiane, tradizioni solide, purtroppo sempre più fragili visti i tempi che corrono, che tuttavia in quei giorni sembravano resistere nonostante i tentativi abolizionisti (tentativi che in questi ultimi mesi hanno raggiunto un culmine di cui è difficile immaginare il futuro).
Così incontrai toreri, ex toreri, allevatori, imprenditori, appassionati, intellettuali di cui scrissi qualcosa e che tuttavia misi da parte per risolvere la questione con le ultime puntate della mia ricerca, purtroppo rimaste incompiute. La questione che ripetevo era sempre la stessa: come mai in un Paese che ha vissuto un passato recente tanto violento e che ancora respira l’aria di una sorta di guerra civile continua, sembra così impellente il problema morale della tauromachia? Come è possibile che, dopo tutti i morti e gli scomparsi e i feriti, mutilati, sfollati che in questi anni hanno riempito le strade delle principali città e anche delle campagne e delle infinite foreste colombiane, come è possibile che si discuta con tanto accanimento della morte di pochi tori da combattimento, uccisi dopo una vita divina in allevamenti spettacolari, anni selvaggi, per poi farsi carne che finisce in tavola? Dove sta l’urgenza del problema?
Man mano che ne discutevo, mentre la maggior parte dei miei interlocutori scuoteva il capo incassandolo nelle spalle e ripetendo la mia domanda, come se fosse solo una domanda retorica, capace di illuminare l’idiozia di un mondo in rovina, mi saliva dentro una risposta che infine brillò proprio nell’ultima tappa del mio viaggio. Mi trovavo a Cali. Ero sbarcato dopo giorni bellissimi e complicati a Medellín. Nel Museo della Memoria, avevo fatto letteralmente i conti con numeri di morti da capogiro. La storia dell’orrore quotidiano raccontata dai dati e da pagine e pagine di resoconti era sconvolgente. Avevo poi incontrato uno scrittore sublime: Héctor Abad Faciolince, autore di un capolavoro assoluto che in Italia incomprensibilmente non viene ripubblicato: L’oblio che saremo. Il libro racconta la figura del padre, medico e attivista per i diritti umani ucciso in strada da paramilitari. Héctor mi invitò a pranzo e passai con lui ore indimenticabili parlando di ogni argomento, compresi i tori, e guardando i tetti della città. Quando arrivai a Cali, la portata di quel che era avvenuto in Colombia mi era più chiara. E fu a Cali, nella città della salsa, del divertimento, della vita leggera, nonostante l’orrore, che la risposta arrivò.
Per una giornata intera, uno dei migliori aficionados della città mi portò in giro a cercare i segni della cultura taurina caleňa. I luoghi dove erano sorte le plazas de toros, i posti d’incontro, i libri e le riviste, fino alla plaza de toros de Caňaveralejo ancora in funzione, dove impazza la feria che fra poco, dal 26 al 30 dicembre riporterà i tori in città. Mentre Juan Gonzalo Montoya mi accompagnava nella visita, ispezionando i bei corrales all’ombra delle immense ceibas, gli feci di nuovo la domanda. Montoya sembrava lontano dalla riflessione per così dire filosofica sull’argomento. Non mi pareva insomma che lo appassionassero granché le interpretazioni quanto invece la fiesta nella sua essenza concreta, fatta di odori, luci, sapori, grida, musiche, bellezza, lotta, eroismo, mentre dell’animale amava il toro nella sua essenza, il toro nel suo ambiente, e specialmente quello che scorrazza nei pascoli divini della ganaderia Salento, sangue Santa Coloma, una meraviglia assoluta. Eppure fu lui a rispondere senza pensarci dando alla retorica della domanda un altro aspetto. “Perché abolire la fiesta se c’è stata tanta morte? Forse proprio per questo no? Forse proprio per tutta la morte che hanno visto sul serio, il rito della morte non vogliono neppure affrontarlo”.
Mi spiace non aver chiuso quel reportage con le ultime due tappe: Medellín e Cali. Avevo sempre immaginato di poterci tornare su anche a distanza, ma poi, quando si scrivono pezzi di quel genere mentre si è in viaggio, ci sono cose che, tornati a casa, nonostante appunti, fotografie e ricordi, non si recuperano più. E forse però così doveva andare. Perché in questo ultimo anno, sono stato costretto a comprendere davvero quel che la risposta veloce di Juan Gonzalo Montoya si portava dentro, non solo a livello intellettuale, come capita nell’apprensione di un’idea ben ponderata, ma fredda, non vissuta, molto lontana, compresa solo per via intellettuale. Dovevano arrivare i massacri di questi ultimi tempi per farmi sentire davvero, anche a livello emotivo, quel che spiega l’assurda persecuzione delle corride in Colombia.
La questione infatti non ha per niente quelle tinte di ridicolo che uno è portato a immaginare quando si trova di fronte ai numeri che raccontano il vero orrore paragonati a quelli dei tori uccisi durante una corrida. Quando restiamo lontani dalle situazioni umanamente più drammatiche, le giudichiamo con un piglio del tutto inadeguato. Ci viene da sorridere: mentre vengono uccisi migliaia di esseri umani dai loro simili, come è possibile indignarsi per la morte di qualche toro, ucciso peraltro per farne carne e dopo averlo allevato a lungo ecc ecc ecc? Ma è una domanda fredda appunto. Che perde tutta la portata emotiva della questione. Una portata che si deve vivere da vicino per sentirla profondamente. Ora, avremmo tutti preferito non vivere quel che stiamo vivendo. Ossia guerre vicinissime, eccidi e distruzioni quotidiani dall’altra parte del Mediterraneo, mostruosità che tutti noi occidentali avalliamo, sosteniamo, in parte finanziamo. Avremmo tutti preferito non assistere ogni giorno a bombardamenti di scuole, ospedali, campi di rifugiati. E sarebbe stato magnifico non dover arrivare a fare conti sconvolgenti come quelli che ci arrivano da Gaza, dove ogni giorno, in media, vengono uccisi cinquanta bambini, uno ogni mezzora, due classi di ragazzini rase al suolo quotidianamente in una città poco più popolosa di Milano. Avremmo preferito, ma sta andando così, e non riusciamo a fare nulla per evitarlo.
Ecco i numeri, allora, e che senso hanno? Possiamo metterci a dire che in un mondo in cui vengono uccisi diciottomila bambini in un anno è grottesco che quattro animalisti vadano a contestare il Papa per chiedere l’abolizione della corrida e la morte di poco più di duemila tori in un anno? No, non ha alcun valore, non serve a nulla, non spiega niente. Certo, cia iuta a confermare l’idea che gli umani non solo sono capaci di mostruosità inaudite, ma riescono anche a inabissarsi nella più perfetta idiozia. E tuttavia c’è altro qui. Altro che noi proviamo, sentiamo, viviamo. Di fronte a questo eccidio infinito, se ogni mattino ci svegliamo e facciamo i conti con le immagini, con i video e tutti quei mezzi che la nostra epoca ci mette a disposizione per seguire quasi in diretta il massacro, be’, quando seguiamo, anche se da lontano, questo delirio di morte, come possiamo ancora appassionarci al rito della morte? La corrida, come ritualizzazione della fine di ogni essere animale vivente, mantiene il suo senso più alto quando non viviamo l’orrore continuo generato da quegli animali dotati di logos che noi siamo. Mai mi sono sentito così poco interessato al sublime rito artistico della morte che è la corrida come in questi tempi in cui la ragione si è inabissata e assisto senza scampo e senza speranza a una mattanza che nessuna parola potrebbe neppure definire.