Ora maritima

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                                                                                                                                              A Bianca

Dopo una corrida fischiatissima di Morante de la Puebla, Sebastián Castella si è preso una cornata di venti centimetri nella coscia sinistra e ha finito la corsa senza mostrare scoramento, senza neanche zoppicare uscendo. Quella notte siamo stati a mangiare a Casa Paco, sbagliando, confusi forse dalla bellezza di un certo viola di banderillas sul pelo nero smaltato di rosso. La discussione alla Cervecería aveva strisciato su un filo di cocci di bottiglia. Una tertulia rischiosa, sulle categorie e i massimi sistemi: la zona grigia in cui pascolano i tori da combattimento, in bilico tra un selvatico crudo, irredimibile, e un cotto imperfetto e addomesticato. L’una o l’altra? Entrambe le cose? Nessuna? Continuando a parlare abbiamo passato Calle de Toledo e siamo entrati a Casa Paco, credendo di trovare un ristorante dei tempi antichi, pieno di gente, illuminato bene. Poteva essere Ciriaco, Mariano, Manolo, Alberto, Lucio, o uno dei cento altri posti madrileni in cui entri tra parentesi e per due ore sei contemporaneo di Hemingway, di Lorca, a volte di Franco. Casa Paco invece ci ha investito con la malinconia desertica dei luoghi decaduti, quelli che non hanno saputo morire in tempo.

Con vecchi fasti incrostati alle pareti, foto di tavolate carnevalesche, di star hollywoodiane passate di lì, cimeli e pegni di storie dimenticate, il manifesto autentico di Manolete a Linares, Casa Paco è un naufragio, un fantasma in giacca e strichetto come il Lloyd di Shining. L’interno era vuoto. Abbiamo cenato sotto una luce autoptica, da infermeria d’arena, con facce da bordello all’alba che lasciavano i tavolini in Calle de Gómez de Mora per entrare a svuotare la vescica in un bagno troppo vicino al nostro tavolo. Il proprietario, tatuaggi da carcere, faccia cresciuta altrove, poteva essere tanto un lontano discendente di Paco quanto chi vince un ristorante al gioco, e lo rileva non per passione ma per mungerlo come una vacca vecchia, prima del macello. Pisto manchego, un travestito esilissimo va in bagno. Tortilla semplice, una coppia di studenti tardivi americani va in bagno. Revuelto Paco, una ragazza triste e sovrappeso va in bagno. Risa in esterno. Occhi da cocaina. Un’entropia, un grigio fuori margine nelle mappe dell’eccellenza.

Le mappe dell’eccellenza. Quelle di chi conosce la città e ti consiglia un posto medio per poi tenere per sé le informazioni migliori. Quelle costruite negli anni da comitive che a grappolo e poi in solitudine tornano sempre negli stessi posti per narcisismo e nostalgia. Quelle di chi come me, come tutti, vuole fermare il tempo, le storie, le persone, le vite, e vive l’inflessione come un lutto, la stanchezza come una catastrofe. In una di queste mappe severe, Casa Paco non è un’opzione, è un errore imperdonabile. Eppure, mentre pagavo e uscivo con un vago sapore di vergogna, mi è tornata in mente la conversazione di prima sui tori, quella sulla zona semantica grigia: selvatico, addomesticato. Ma non riuscivo a trovare una salida intelligente, saggia e, dopo il jab dell’ultimo gin tonic, immaginavo tori-Casa Lucio e tori-Casa Paco, la difesa oltranzista di un’estetica radicale, sostenuta molto spesso da uno star system e da portafogli pieni, e poi la decadenza di una provincia dell’anima, che forse ha storie più vicine a noi da raccontare.

La questione della zona grigia mi ha lavorato nel sonno, quella notte, evocando fantasmi e metafore incentrate sulla morte e le sue declinazioni più degradanti. Abbandono, agonia, malattia, tutte cose che l’arena, per esistere, deve escludere a priori, chiedendo a tutti, attori e spettatori, di lasciarle fuori. Il torero malato non torea. L’animale malato non solcherà mai la sabbia del ruedo. L’aficionando malato può toreare nel fondo di sé stesso, sognerà con la memoria delle natiche il granito dei gradini dell’arena, quelli dell’ultima volta, forse gli ultimi per sempre. Ma nessuno di loro è ammesso. Posti come Las Ventas o la Maestranza sono concepiti per l’esclusione, un’eccellenza spietata, questa faccenda dei tori, che non elimina però le zone grigie. Così, proprio due settimane dopo che Urdiales, Talavante e Luque avevano ingrigito sei tori di Alcurrucén in una corsa relativamente mediocre, mi sono ritrovato a Bologna, in un clima di festa un po’ allucinata, triste, ma non saprei dire perché, e ho visto un film che mette in movimento, dentro un bianco e nero fuori tempo, proprio la zona grigia del toreo, della vita.

La storia a monte è quella di un cambio di sguardo. Dalle stelle alle stalle, per così dire, dalle figuras che hanno tutto, che tutti vedono e conoscono, a chi non ce l’ha fatta o non ce la farà mai. Chi non ce l’ha fatta è Manolo Corona, un ex torero nato a Suiza nel 1971, venti tardes alla Maestranza, banderillero di Morante, poi l’uscita di scena per problemi al cuore, dovuti all’abuso di alcol e cocaina. Chi non ce la farà mai è Mario Diéguez, nato nel 1985 a Coria del Río, uno dei tanti toreri che ormai fuori tempo massimo sopravvive nella dura zona grigia tra successo e insuccesso. Il film non parla di questo, però, o meglio, non fa di questo il cuore del racconto. Il cuore del racconto è la potenza trasformativa di un sogno, qualcosa che trascende la facile retorica della provincia, della resistenza senza speranza, del dietro le quinte invisibile, della polvere di stelle.

Sedendomi sulla poltrona di velluto rosso, rimuginando su ore di vita precaria e la loro potenza distruttiva, non sapevo che cosa aspettarmi da un’oretta di film sui tori. Ero lì quasi per caso, avrei dovuto essere in un’altra città, mi trovavo nelle vicinanze per gestire questioni amare, e soprattutto, ormai, per me la corrida è una questione privata, guardo con distacco ogni discorso altrui che ambisca a qualcosa di più di una chiacchiera davanti a un bicchiere. Intanto cominciano le immagini: bestie nei campos, scene descrittive, molto belle sì, ma che prese da me sotto gamba, non avendo l’occhio pronto per capire che servono da anticamera ed educazione ritmica, mi lasciano freddo. Poi stacco: cimeli taurini alle pareti, le pale di una ventola, un primissimo piano, volto di tre quarti, fronte calva, occhi svegli e al tempo stesso appannati da un’ombra. L’uomo, che trovo subito bellissimo, una bellezza virile, antica, rassicurante, eppure inquietante, pericolosa, comincia a parlare, magnetico, incantatorio. Parla di un campo di grano che ondeggia al vento, e di un papavero che è donna e che accarezza ritmicamente il campo, con la calma di chi culla un bambino. La muleta, il toro. L’uomo è così intenso e commovente che mi viene il dubbio che stia recitando, un attore, insomma. Invece è Manolo Corona.

Uscito dalla sala saluto il regista con un abbraccio, vado via. Ho bisogno di pensare, mi manca il silenzio. Ci dormo su, e il giorno dopo, pranzando con i miei figli, dico a bruciapelo “ieri sera ho visto un film bellissimo”. Ma come si racconta un film, proprio quel film? Dico loro che parla di corrida ma che non la fa vedere mai, che ci sono lunghissime riprese con pochi tagli che mostrano l’allenamento di un torero, che i personaggi non hanno successo ma che parlano e si muovono in una maniera che li riscatta. Un po’ alla volta trovo il modo per dire ai ragazzi, immersi nelle loro vite a me incomprensibili, che cosa ho visto al centro del racconto, cioè che non importa vincere o perdere se un sogno ci rende migliori. Parlo loro di Manolo, senza ancora sapere della sua vita tormentata, vedendo solo che ha sognato il toreo ma che poi non ce l’ha fatta. Eppure, ecco, su quel divano, mentre parla, si capisce che è abitato da una bellezza più grande di lui, che la corrida è una donna stupenda, esigente, e che per viverla devi avere coraggio, essere disposto a tutto, anche a perderti, anche a perdere la vita. E proprio per questo, chiunque tu sia, un bellissimo torero di vent’anni baciato dal successo o un ex torero cinquantenne pieno delle cornate della vita, sei in qualche modo salvo, o almeno sei meglio di quanto sei.

Un giorno, in macchina tra Arles e Avignone, un amico mi disse che la corrida è un antidoto alla volgarità. Questa frase mi ha accompagnato per anni, ed è vera ed è falsa. Gli antidoti guariscono, ti salvano la pelle, e questa è la cosa vera. La cosa falsa è che non è questione di volgarità, perché nessuno ne è immune, nessuno è davvero fuori dalla sua personale zona grigia, nessuno alla fine si salva veramente. Un cancro al pancreas si è portato via il mio amico. Un cancro al pancreas sta portando via Manolo Corona. Un giorno o l’altro il torero muore, il toro muore, l’aficionado muore, la stessa corrida prima o poi morirà. Allora è tutto un inganno? Siamo come i tori imbrogliati da un panno rosso in attesa che il sentido ci risvegli, che riconosciamo finalmente la cruda realtà, ma proprio in quel momento saremo messi a morte? O l’inganno è quello dell’autoinganno in un sogno, come il sogno di gloria di un torero che invece resterà per sempre a metà classifica? Parlavo di questo ai miei figli, e pensavo che la cosa che vorrei di più per le loro vite è che possano incontrare una cosa, magari una persona che sia stupenda e che in modo severo, quasi feroce, pretenda da loro elevazione e coraggio, come il toreo.

Così, in queste ore di scavo interiore, penso molto a L’inganno, il film, e al suo regista, Sebastiano Luca Insinga, che dal 2016 ha iniziato un viaggio nella corrida, cambiando idea alcune volte, trovando alla fine la sua storia, che funziona perché è la storia di chiunque viva con un piede nel sogno e un piede nella zona grigia, uno nell’engaño e uno nella nuda verdad. Ma penso che anche lui, entrando nel mondo dei tori, è stato alla fine abitato dalla loro nobleza, e nel film si vede. A volte ci sono immagini che riescono proprio a dirlo. Ho provato ad esempio a evocare nella testa dei miei figli una scena: la tavola increspata della marisma lungo il Guadalquivir che scivola via come un tessuto, Mario in tuta da ginnastica sulla sabbia della riva che ripete con lentezza estenuante movimenti che vorrebbe far rivivere nell’arena, i piedi scalzi, la tenacia invisibile del giorno per giorno. “Vedete – dico – la marisma non è terra e non è acqua, è una zona intermedia. Viene dal latino, ora maritima”. I ragazzi mi guardano, sembrano intuire. Ma perché? Perché farlo anche quando qualcosa ti dice che non basterà mai? La risposta è tagliente, verticale. Per la bellezza. A parte questo, Paco, siamo polvere.

L’INGANNO (2023) un film di Sebastiano Luca Insinga

Documentario, durata: 67’, 2K | B/N | 5.1

con Mario Dieguez Suarez e Manolo Corona

una produzione JUMP CUT (Italia), in coproduzione con VERMUT FILMS (Spagna) e SISYFOS FILM PRODUCTION (Svezia), prodotto da Sebastiano Luca Insinga e Chiara Nicoletti, coprodotto da Rafa Arbeloa Rubio, Mario Adamson, José María Ramos Díaz.

Anteprima mondiale: Biografilm Festival 2023 | Concorso Italiano; menzione Speciale della Giuria “Tod Doc”

Le fotografie di scena sono di Simone Cargnoni.

QUI TRE ARTICOLI DEL REGISTA PER UOMINI E TORI: Storia di un torero. Incontro; Tenacia; Sogno.

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