Miró e Hemingway

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Fu negli anni parigini che Hemingway scoprì la Spagna e le corride. Arrivato a Parigi a fine 1921 con sua moglie Hadley, quello che al tempo era ancora soltanto un giornalista avido di imparare dai colleghi più anziani di un giornale canadese, riuscì subito a entrare in contatto con i migliori intellettuali che allora erano di stanza in città. Aveva con sé una lettera di Sherwood Anderson che gli permise di conoscere Joyce, Pound, e soprattutto Gertrude Stein. Fu la Stein a spingerlo verso la Spagna. E fu a Pamplona che Hemingway s’innamorò definitivamente della tauromachia, nonostante il primo viaggio lo avesse spinto principalmente nelle arene di Madrid e Siviglia.

Sappiamo bene che il rito tauromachico costituì per Hemingway un modello decisivo nel suo percorso di iniziazione alla scrittura. Il motivo lo spiegò lui stesso in quel Moby Dick della corrida che è Morte nel pomeriggio: “Il solo luogo dove si potessero vedere vita e morte, vale a dire morte violenta ora che le guerre erano finite, era nell’arena dei tori (…). Cercavo d’imparare a scrivere incominciando dalle cose più semplici, e una delle cose più semplici e fondamentali è la morte violenta. (…) Avevo letto molti libri in cui, quando l’autore cercava di descriverla, si limitava a produrre una macchia imprecisa e decisi che questo dipendeva dal fatto che o l’autore non l’aveva mai veduta con chiarezza oppure che in quel momento aveva chiuso, fisicamente o mentalmente, gli occhi.”

Eppure attraverso le plazas de toros, Hemingway s’innamorò soprattutto del Paese, di quella Spagna immensa, complessa, sfuggente e eterna. Una dimensione spirituale che rimpianse sempre, quando ne era lontano. E che noi lettori ritroviamo perfettamente nel capolavoro assoluto che è il XX capitolo di Morte nel pomeriggio.

Pure, a Hemingway non bastavano i ricordi per sentirsi vicino al Paese che più amava. E fu soprattutto un quadro a nutrirlo nei momenti in cui aveva bisogno di ritrovare la sua Spagna. Si tratta di un capolavoro che oggi è affisso sulle pareti della National Gallery of Art di Washington. È intitolato La fattoria e il suo autore è un certo Joan Miró.

Non era ancora celebre quando lo dipinse, il grande pittore catalano. Ebbe bisogno di mesi fra il 1921 e il 1922 per trovare gli elementi capaci di raccontare la sua infanzia a Montroig. Elementi che da artista già consumato, benché ancora lontano dallo stile con cui sarebbe diventato inconfondibile, dispose in maniera molto particolare nello spazio. 

Hemingway si appassionò all’opera nel 1925. Gertrude Stein, grande amica di artisti, più volte lo aveva spinto a comprare qualcosa, appena avesse potuto. “Picasso non è alla tua portata” gli aveva detto indicando i quadri affissi alle pareti della propria abitazione in rue de Fleurs 27. I giovani emergenti però se li sarebbe potuti permettere anche uno squattrinato come Hemingway. E sarebbe stato un affare. Lo scrittore, però, non era certo uno capace di investimenti. Era piuttosto un passionale che teneva duro nel momento in cui s’innamorava. E del dipinto di Miró s’innamorò appena lo vide e decise di comprarlo per regalarlo a sua moglie che era lì lì per compiere trentaquattro anni.

Si misero di traverso due elementi. Il primo era Evan Shipman che già da tempo aveva adocchiato il quadro e se lo era fatto promettere. Fu un ostacolo semplice da superare, perché quando seppe che Hemingway voleva acquistarlo per Hadley decise di dargli la possibilità di giocarsela a dadi. La sorte premiò Hemingway. Che tuttavia si trovò di fronte a un altro ostacolo ancora più grande: non aveva i 5000 franchi per acquistare la tela. Fu allora che intervennero gli amici. Ciascuno diede quel che poteva e chiese in prestito quel che mancava. Si raggiunse la cifra in un giorno trionfale, in cui tutti assieme portarono il quadro nella casa di Hemingway in rue Notre-Dame-des-Champs 113. Miró fu il più divertito da tutto quel che era accaduto e accettò volentieri l’invito di Hemingway a visitare l’abitazione dove la tela troneggiava sopra al letto matrimoniale.

Il seguito della storia è meno eroico. Hemingway e Hadley divorziarono due anni dopo. All’inizio Hadley volle la tela, poi la lasciò all’ex marito con cui mantenne ottimi rapporti. Hemingway del resto le fu riconoscente di ogni cosa e non soltanto per quel gesto. Quanto alla Fattoria, la portò sempre con sé fino alla Finca Vigía di Cuba, dove il quadro dominava ancora quando nel 1961 lo scrittore si tolse la vita. Fu Mary Welsh, sua quarta moglie, a occuparsi di staccare dal muro il quadro prima che i cubani prendessero possesso della casa. Ne fece dono al museo di Washington.

Chi osserva l’opera per pochi minuti in una visita a tutte le meraviglie che sono conservate in quelle sale non può davvero provare le sensazioni che Hemingway riteneva decisive in quel pezzo d’arte così straordinario. Diceva sempre che si trattava di un’opera piena di magia accanto alla quale egli aveva bisogno di essere vicino, perché lì dentro “ Miró è riuscito in ciò che nessun altro è riuscito, ossia mettere assieme in un quadro tutte le tue sensazioni sulla Spagna quando ci sei, e tutte le tue sensazioni quando ne sei lontano e non puoi andarci”.

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