In Colombia: Hacienda Venecia

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La domanda mi accompagna e anzi mi perseguita da quando ho visto una coppia di turisti redarguiti perché fumavano in un locale all’aperto. Credevo fossero cose che succedono solo nell’altra America. “Siamo all’aria aperta” “Si, seňor, respiriamola. Se può collaborare, per favore. Se può aiutarmi”. Con la gentilezza estrema che qui è in uso, i due sono stati invitati a fumare fuori dal cerchio dei tavoli. Pensavo all’aria della città, alle polveri sottili, e a tutte queste assurdità da paradosso. E davvero mi pareva che non c’entrasse nulla la divinità della terra che in Europa ormai citiamo quasi fosse un personaggio da film un po’ accudente e un po’ fumetto: Pachamama. Allora mi sono deciso e ho chiamato Alejandro Gaviria, un giovane matador de toros che ha abbandonato le arene quando ha smesso di sentire il gelido fuoco e adesso rappresenta altri toreri e organizza corride. Mi ha dato appuntamento davanti alla Santamaria, la mitica arena bogotana chiusa ormai da anni da quando il Presidente del cambio, allora sindaco, ha iniziato anche la sua battaglia animalista. Ho seguito la Carretera 7 fra rivenditori di cianfrusaglie di ogni tipo, ho superato i primi grattacieli e eccomi di fronte al grande ingresso di trionfi e sogni, dove la folla aspettava i suoi eroi e che ora è un parcheggio. Gaviria è arrivato e sembrava sbucare dal nulla. Certi toreri hanno un altro passo. Hanno corporature esili come l’aria e sembrano calpestare la terra senza calcarla. Forse è l’abitudine a muoversi senza che l’animale si accorga del loro corpo. Forse è una dimensione che si situa fra gli elementi, ma senza dare a nessuno di essi la prerogativa propria della forza gravitazionale. Mi ha salutato, nel sole che scendeva attraverso gli alberi, e ha detto che il tempo era poco, sarebbe dovuto andare via in fretta, ma intanto perché non provare a entrare nella plaza? Con una delicatezza estrema ha chiamato la custode, e lei era tutta un sorriso: ci avrebbe fatto entrare volentieri, se dentro non ci fossero decine di telecamere. Ce ne siamo andati a un bar lì dietro fra palazzi costruiti attorno all’arena come a riprodurne la forma rituale. Tutto chiuso, tutto vietato, tutto proibito. Anche il Museo Taurino che è dentro la plaza, un museo che dovrebbe essere aperto a tutti, a prescindere dalle opinioni, e che invece, approfittando di cavilli e burocrazia, si tiene chiuso. Un mondo condannato prima ancora di giudicarlo. “Dovete portare le persone negli allevamenti” ho detto a Gaviria “Negli allevamenti si scopre la salvaguardia dell’ambiente e dell’animale. Per questo io cerco di visitarli ovunque sia possibile”. Lui si è alzato, ha composto un numero sul suo telefono, ha parlato. “Vuoi vedere un allevamento? Io proprio ora sto andando lì. A un’ora da Bogotà. Il rappresentante mi ha dato il permesso di portarti”. Siamo usciti in fretta.

I sobborghi di Bogotà sono stradine secondarie polverose, magazzini, negozi improbabili, baracchini che vendono cibi, succhi di frutta, bevande calde. Per le strade, a passo d’uomo, Gaviria mi ha raccontato il clima che ormai circonda il mondo dei tori. Nonostante la legge abolizionista sia stata respinta e la Corte Costituzionale abbia decretato il ritorno dei tori a Bogotà, le associazioni animaliste hanno potere enorme e muovono folle, così i sindaci dei piccoli paesi dove un tempo si tenevano corride hanno paura. Magari si organizza una serata, poi appena si viene a sapere, anche se il municipio non ha sborsato un peso per l’evento, come fa in qualsiasi altra occasione culturale, l’assedio è spietato e il danno politico enorme, dunque si finisce per cancellare eventi già ufficializzati con ricadute drammatiche per l’economia del toro. Gli allevatori che seguono animali accudendoli nella loro libertà per anni, e che dunque sono costretti a spese enormi, senza aiuti e senza prospettive, sono via via costretti a vendere e chiudere. Gli animali di questa razza maestosa scompaiono, si estinguono, ma certo agli animalisti non importa. “Una volta Savater ha detto un cosa geniale” gli racconto “Ossia che l’animalista metropolitano, non conoscendo più l’animale ama sostanzialmente un animale immaginario come il dinosauro, ossia un animale estinto. A questo porta l’estremismo animalista. Ma non credevo che accadesse anche qui”. Lui non ride, fa cenni di assenso malinconico. Mi dice che vedrò con i miei occhi. Che lui adesso sta tentando di mettere assieme tori e toreri almeno per una serata piccola e raccolta, per intenditori, ma tutto è difficile e incerto e addirittura le corride a porte chiuse, quelle in cui i toreri si esercitano, addirittura quelle sono prese d’assedio. 

Finalmente entriamo in campi aperti, aria diversa. Siamo dalle parti di Mosquera e spettacolari opunzie contorte, dai riflessi dorati, costeggiano la strada sterrata che porta all’Hacienda Venecia, un punto di riferimento storico del mondo taurino perché l’allevamento Clara y Sierra è sempre stato amato e rispettato per la sua integrità. Enormi camion fanno su e giù per le miniere di cui sono stati aperti gli scavi quando molta parte dei campi di Clara y Sierra sono stati messi in vendita. Davanti a una casa bassa dal tetto in lamiera ci saluta il mayoral, il soprastante dell’allevamento. Poi esce César Camacho, massiccio torero colombiano oggi rappresentante dell’allevamento. Ecco il genere di matador che invece è tutto terra, tutto lotta, tutta passione fin dalla stretta di mano. Prendiamo una stradina, usciamo dal traffico minerario e c’immergiamo in un mondo a parte. Sembra di essere entrati in un altro tempo. Non ci sono che campi, valli, rigagnoli, questi cactus dalla forma che è una tortura di sole e spine, rocce dai colori incomprensibili e tori, tori sparpagliati ovunque. La jeep ci porta dove Camacho e il mayoral possono descrivere età, comportamenti, bellezza degli animali. Quello è figlio di una certa madre che ha generato tori celebri. Quello è nipote di un toro indultato per il suo comportamento strepitoso. Quello invece sembra riottoso ma chissà cosa riserva. Le chiacchiere sono quelle che si fanno sempre. Poi Gaviria e Camacho vogliono fumarsi una sigaretta e scendiamo dalla macchina, i tori sono lontani, per un attimo si scherza di qualcosa finché un toro non corre verso di noi, allora tocca scappare. La paura che fa un toro è qualcosa di sacro. Passiamo in un avvallamento sconquassato, un uomo a cavallo ci precede aprendo cancelli in legno, non si sente nulla se non ronzii e muggiti, qualche toro lontano si sfida senza lottare seriamente. Poi saliamo su un colle e da lì lo spettacolo è strabiliante. Camacho indica un punto e sembra la mossa classica “un tempo tutto questo sarà tuo, figlio”. Invece è l’opposto “un tempo l’allevamento arrivava fino a laggiù, solo tori”. Adesso ci sono coltivazioni intensive e sfruttamento minerario. Forse costruiranno anche. Eccolo il risultato della lotta animalista per evitare che due centinaia di tori vengano uccisi ogni anno in tutta la Colombia.

Torniamo giù. Il mayoral offre caffè, resti di dolci industriali aperti in festeggiamenti passati. Camacho continua a mostrare tori in fotografie che il suo telefono riproduce in dettagli impressionanti. Gaviria spiega le sue intenzioni. Dice che forse, per questa piccola cerimonia da organizzare pur di dare pane agli aficionados, si dovrebbe fare come molti stanno iniziando a chiedere perché la corrida possa continuare con maggiore tranquillità in Colombia. Ossia abolire la morte. Lui è contrario, ma per un piccolo festejo come quello che vorrebbe organizzare forse è meglio evitare problemi. Eccola la soluzione. Rimuovere la morte. Come in Portogallo, dove pur di non vedere il toro che muore nell’arena gli si riserva il destino peggiore. L’uscita vivo e ferito dall’arena. Quindi l’agonia aspettando la morte che comunque arriverà, ma dopo che l’adrenalina della lotta è calata, dunque quando le ferite cominceranno davvero a procurare dolore. L’ipocrisia dei nostri tempi. La stessa di chi vieta una sigaretta all’aperto nel centro trafficato di Bogotà. 

Torno a insistere: devono organizzare visite guidate degli allevamenti, far pagare, almeno si recupererà qualche denaro. Si fanno visite guidate per qualsiasi stupidità in questo tempo, perché non in un mondo così unico. Io avrei pagato per vedere quel che ho visto oggi. Chiunque ami gli animali e la natura pagherebbe. Ascoltano. Forse ci pensano, forse no. Io vado a visitare la piccola plaza dell’allevamento, bellissima nei suoi colori accesi e saturi sotto al sole, il cavallo dell’uomo che ci ha accompagnati sta lì aggiogato, la sua pelle scintilla. Un fiume poco lontano scorre melmoso. Torno sulla sterrata trafficata di camion. Arrivo davanti alla splendida costruzione dell’Hacienda Venecia. È tutto chiuso. Solo il viavai dei camion, incessante. Il giardino è meraviglioso ma la polvere della strada ha ricoperto le piante. Le imposte rosse sono sbarrate. L’economia dello sfruttamento minerario qui ha vinto a mani basse sull’economia dell’animale. Ma dove non vince il capitale? Qui vince anche grazie ai grandi movimenti animalisti che spingono per l’estinzione dell’animale toro de lidia. Ma è una contraddizione a cui ci siamo talmente abituati che sembra quasi normale. Eppoi cosa importa di tutto questo in Colombia? Non sono altri i problemi? Certo. Ma appunto: allora cosa importa davvero al Presidente Petro della causa animalista in salsa protestante se ben altro è il cambio da portare a questo Paese?

(2 – continua)

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