Contro l’animalismo antiumanista

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Pochi giorni fa ero a San Lorenzo, in una di quelle pizzerie che a Roma non chiudono mai, neppure a metà agosto, neppure se fa un caldo che manco a Sevilla. Festeggiavamo il compleanno di un amico e, mentre arrivava da bere, uno degli invitati, in procinto di partire per la Spagna, mi domandava lumi sui biglietti d’ingresso a una plaza de toros. L’idea che volesse vedere la sua prima corrida ha spinto qualcuno a dirgli ironicamente che faceva bene, che sarebbe stata anche l’ultima. E poiché lui faceva spallucce, l’altro gli ha spiegato che i toreri devono tutti morire e che sarebbe stato bello vederne qualcuno sbudellato nell’arena. 

Chi ama i tori e non si sottrae e ne parla in giro, è abituato a reazioni del genere. Ma l’abitudine è una bestia pericolosa: può risucchiare nel gorgo dell’oblio anche le più elementari regole di convivenza umana. Così, non ho lasciato perdere. E anche se il festeggiato pregava che si evitasse la solita discussione, mi sono messo lì a chiedere perché dovessimo augurarci la morte di un essere umano. Generalmente la prima cosa che spiego a chi sogna di assistere alla morte del torero è che la corrida non è uno sport e non è una lotta. Niente gladiatori: se l’animale uccide l’uomo, non vince e non esce libero e trionfante dall’arena perché viene comunque ucciso dal torero seguente. La corrida è una cerimonia che ritualizza la morte e morte deve tenersi al centro della plaza. Generalmente, dopo aver chiarito la natura rituale della tragedia tauromachica, a chi non sopporta l’idea che il toro non possa salvarsi, spiego come funziona l’indulto e ciò che implica, chiarendo che si tratta dell’unico caso, nel mondo costituito da animali allevati, in cui dell’animale si possa democraticamente chiedere la vita, perché si è visto in esso una tale qualità che si spera possa farsi padre di animali altrettanto validi. 

L’altra sera, però, a tutto questo non sono arrivato. 

L’antitaurino aveva radici spagnole e ha cominciato a parlar castellano spargendo insulti contro l’umano taurino e manifestando implicitamente il suo diritto di parola sull’argomento. Si tratta di un classico assioma: spagnolo uguale competente. E poiché so che non è affatto così, gli ho spiegato che si trattava di ignoranza. Gli ho detto con fermezza che ignorava ogni cosa del mondo su cui elargiva condanne e che quando si ignora si dovrebbe tacere e ascoltare, ma se non lo si vuole fare, si deve almeno evitare di augurare la morte a chi fa qualcosa di assolutamente legale. La discussione si è animata, in breve ha superato gli argini e l’antitaurino ha lasciato la tavolata furibondo.

Sono cose che capitano spesso. Ma ciò su cui voglio riflettere è il seguito della storia. Mentre il festeggiato cercava invano di riportare indietro il suo amico, gli altri presenti mi hanno spiegato la natura del mio errore. Ero stato violento nel dare dell’ignorante al tipo. Avrei potuto usare toni più concilianti. In fondo, non è necessario saperne di tori e anzi è ormai socialmente riconosciuto l’orrore della corrida al punto che non c’è niente di strano nell’augurarsi la morte del torero. Si tratta di un ritornello comune in queste conversazioni. Non bisogna mica prendersela. Ecco qua il dramma dei nostri tempi, ho pensato. Ho cercato di chiarire ai presenti il punto fisso a cui – ne sono convinto – è necessario attenersi, ossia che non si può mai augurare la morte a un essere umano , e men che meno lo si può fare se quell’essere umano non si sta macchiando di alcun crimine e sta rispettando le regole di convivenza democratica. Ma poiché tutti insistevano a dire “vabbe’, ma dai, è normale farlo con un torero” ho smesso di discutere e ho aspettato che passasse ferragosto per scriverne.

Viviamo un tempo malato.

Di tutte le malattie quella peggiore è il tabù della morte. E l’animalismo è diventato una manifestazione violenta di quel tabù. 

L’idea che non si debba morire e che, al limite, se proprio è necessario morire, la morte non debba essere vista, è stata estesa all’intero mondo animale e poco importa che di quel mondo non si faccia più esperienza che non sia quella degli animali da compagnia. Ciò che importa è che la morte di un animale non dotato di parola, non umano insomma, è ormai sullo stesso piano della morte di un animale dotato di parola. 

L’animalismo (e la sua forma più radicale: l’antispecismo) si è fatto completamente antiumanista e l’idea che un uomo non possa uccidere un animale, pur nel rispetto della legge, si è diffusa in maniera incontrollata. Certo, tutti coloro che mangiano carne sanno bene che si tratta di animali uccisi da qualche essere umano, ma ciò che noi sappiamo non coincide con ciò che proviamo. Così chi mastica carne, poiché non ha visto la morte dell’animale che ha in bocca e non ha visto chi quell’animale ha ucciso, sorvola sulla questione, la scansa, la rifiuta e la ignora. Unici colpevoli restano esclusivamente gli attori visibili di ciò che non è più tollerato: la morte. Il torero che la morte la somministra nel rito tauromachico dunque deve essere condannato. Per lui, del resto, la condanna è la più definitiva. Condanna a ciò che si ritiene ormai insostenibile nel pianeta dell’immortalità: la morte. Dunque il torero deve morire. Deve essere sbudellato e patire atroci sofferenze. Inutile spiegare a chi così pensa che nel mondo muoiono circa 3000 tori da corrida all’anno, mentre quotidianamente vengono uccisi circa novecentomila bovini. Non hanno senso i numeri. Non hanno senso i ragionamenti. L’isteria è conclamata. Voi tutti che andate a vedere lo spettacolo della morte dovete morire.

Molto significativo che tutto questo sia comune nel mondo occidentale e che sia anzi violentemente ribadito in Spagna. Ho conosciuto una donna (che avendo pubblicato alcuni libri si definisce scrittrice) terribilmente dura sull’argomento. La sua foto di profilo nei social che oggi facilitano la comunicazione è il famoso scatto che ritrae un grande torero repubblicano, Ivan Fandiňo, nel momento in cui il toro lo uccideva. Uno slogan di entusiasmo sottolinea nella foto la smorfia di dolore dell’uomo che va incontro alla morte. Le ho chiesto come potesse permettersi una cosa del genere e mi ha riso in faccia. Non ha risposto, né commentato, ovviamente. La ragione, nel tempo dell’immortalità, è dalla sua senza che la si possa discutere. Tanto che alle mie insistenze la donna ha evitato definitivamente ogni confronto bloccandomi sul social, come si dice oggi, ossia interdicendomi la possibilità di contattarla o criticarla.

Non esiste critica, infatti. È socialmente riconosciuto che… Vale ciò che il senso comune ha stabilito, insomma. Non il buon senso. Né tantomeno la legge.

Ora, dovrebbe essere chiaro perché il mondo dei tori sia diventato un paradigma. L’odio diffuso nei confronti di questa dimensione che ancora celebra e ritualizza la morte non è che una manifestazione paradigmatica della malattia occidentale. È la punta di un iceberg insomma e si potrebbe pensare che non sia necessario affrontare l’iceberg nella sua punta, ma nella sua massa immensa. Si potrebbe pensare che sia più utile trattare la questione dell’animalismo antiumanista fuori dalla discussione della corrida. E tuttavia io credo che combattere quell’odio, quell’ignoranza, quel delirio di immortalità sia necessario anche a partire dalla questione taurina. E credo che chi ama i tori sia chiamato a farlo. Non solo gli appassionati di tori del futuro gliene saranno grati. Ma tutti.

E qui sta il punto di riflessione decisivo. Da qualche anno, ormai, i cosiddetti aficionados si sono ritrovati a discutere della possibile fine del mondo che amano. Erano riusciti a sottrarsi, rifiutandosi di farlo, per anni, spesso per presunzione o perché convinti che non esistesse altra realtà, un po’ come il geniale Rafael El Gallo che arrivato a Parigi in una domenica primaverile chiese: “Niente corride? E cosa si fa qui allora di domenica?” Ma il montante discredito e soprattutto la proibizione catalana hanno aperto definitivamente il varco alla discussione.

Lasciando perdere le risposte meno acute e dominate dalla contingenza, ossia i tentativi di modernizzare la corrida per difenderla, come se fosse possibile inseguire i deliri di fanatismo degli sport più gettonati pur di sopravvivere (ho visto, tanto per dirne una, un calendario di toreri a petto nudo che faceva venir voglia di chiuderla per sempre), due sono le strade su cui s’impegnano i difensori di questo mondo. La più coerente è la difesa dell’integrità della festa, ovvero, anziché la modernizzazione, il rispetto delle regole e l’esaltazione dell’animale toro, combattendo la commercializzazione, le frodi, e il declino degli allevamenti dominati dall’unico sangue di tori che è facilmente smerciabile, quello degli animali più semplici e toreabili, amati dalle star, ma non più tanto amati da un pubblico che va annoiandosi e lasciando gli spalti proprio per assenza di emozione e di serietà, rigore e verità. 

L’altra strada è quella più ampia, quella che più deve interessare chi si pone il problema dell’animalismo antiumanista. Ossia una difesa culturale della tauromachia moderna e anzi un attacco culturale alle forme di delirio che si sono impossessate della società grazie anche alle potentissime lobby mosse dal mercato milionario che gira intorno ai cosiddetti pet: gli animali da compagnia.

È una strada che si biforca. Da una parte è necessario combattere in positivo, cercando di mostrare ciò che il mondo dei tori effettivamente è, nella sua ricchezza e nella sua complessità. Dall’altra è necessario combattere in negativo, contrastando le menzogne sparse di continuo dalla lobby animalista. Questo lavoro culturale è stato portato avanti in Francia per anni. Gli spagnoli hanno osservato in silenzio quel lavoro, spesso con sdegno, convinti che accadesse solo perché in Francia le corride non hanno avuto origine e un senso di inferiorità fosse ciò che spingeva i vicini a lottare per divulgare e sostenere un mondo a loro intimamente estraneo. 

Tutti noi appassionati stranieri abbiamo conosciuto la presunzione e la chiusura del mundillo taurino spagnolo. Ci siamo domandati tutti come mai non vedessero ciò che si preparava dietro l’angolo, perché non lottassero per la letteratura taurina, il cinema, le forme d’arte. Abbiamo tutti calpestato i pavimenti di librerie e videoteche in cui le uniche opere taurine erano infilate in angoli da carbonari. Poi finalmente le cose sono cambiate.

Oggi, visto che ormai il pericolo non si può più nascondere né allontanare, anche in Spagna si stanno costruendo le fondamenta della difesa culturale di un universo di significati e tradizioni, assieme alla critica della nefasta deriva animalista antiumanista. L’opera più costante e tenace è quella messa in campo dalla Fundación del Toro de Lidia e dall’Instituto Juan Belmonte. La FTL è un’organizzazione che dal 2015 mette insieme attori di ogni segmento del mondo taurino per difendere e sostenere la tauromachia. Battaglie legali, una rete interna alle università, lavoro in favore dei giovani aspiranti toreri, in favore delle plazas de toros sparse per tutta Spagna, ma soprattutto un’attenzione costante sulla deriva animalista. In questo senso, il lavoro lo porta avanti l’Instituto Juan Belmonte, centro di riflessione della FTL, nonché luogo, molto attivo sui social, dove è possibile seguire la discussione dei temi di cui sto parlando da un punto di vista filosofico, antropologico, economico, giuridico, e in senso ampio culturale. Un lavoro eccezionale e necessario che è bene seguire e sostenere.

Il compito per chi crede in un rapporto sano con il mondo animale sembra davvero immane. La strada in salita ripida. Gli ostacoli ovunque. Difficile oggi immaginare che sia possibile reggere il confronto con gli slogan semplicistici e tranquillizzanti di una lobby che ha alle spalle un’economia potentissima e un giro di danaro imparagonabile. La complessità e la difficoltà nel tempo delle risposte veloci sembrano destinate a sicura sconfitta. Ma sono queste le battaglie che è necessario combattere.

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