I tori di René Guillot

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Il testo che segue porta la firma di René Guillot (1900-1969), prolifico autore di letteratura d’infanzia. A lui si devono diverse opere taurine, ricche d’umanità. Ricordiamo “Le Cavalier de l’infortune”, avventura di un povero ragazzo contadino che cerca la sua strada come rejoneador, e “Le Torero de Cordoue”, storia di un giovanissimo espontáneo col sogno di poter provvedere alla sorella ed all’amico disabile. Il brano che segue racconta, invece, di un adolescente che, per difendere l’onore di suo fratello, torero in crisi, prende il suo posto ed entra nella Maestranza in occasione della Feria de Abril. E’ tratto da “Mille e una bestia”, opera pubblicata nel 1957 dall’editrice Capitol di Bologna.

Come se avesse diluito la scorza rossa dei pini di Cazorla, la pioggia caricava il Guadalquivir di una melma di sangue. Sugli olivi il temporale della notte aveva ridato l’argento al fogliame grigio. I fiori, i gelsomini, le rose, i garofani facevano tutta profumata l’aria della città fino alla fine della Settimana Santa.

In Sierpès, la strada più animata di Siviglia, si scivolava sul selciato annerito dalla cera delle processioni. Due monelli l’avevano grattata con le unghie ed ora, accoccolati sotto un portico, ne scioglievano una grossa palla, adoperando uno dopo l’altro i fiammiferi di una scatola, per modellare una forma cornuta che di lì a poco poteva somigliare tanto ad un San Esteban quanto ad uno dei duri Santa Cruz, i tori da combattimento che il giorno dopo, 16 aprile, avrebbero aperto la grande Feria nelle arene della Maestraza. – Paco… E’ lui! El Morenito… Evviva.

Il monello in piedi acclamava il celebre torero che era già scomparso sul leggero calesse al galoppo delle sei mule di razza, le cui sonagliere, per un attimo, avevano spruzzato con i campanelli d’argento una pioggia di musica sulle facciate gialle, dove ogni arcata portava attaccati i vecchi rami neri della Domenica della Palme.

– Hai visto, Paco! E’ sempre il più bello. Ti dico che torna dai corrales della Nuova Venta di Antequera, torna da vedere i suoi tori… Avrà diritto ai San Esteban, El Morenito!

L’altro monello, che arrotolava tra le dita le corna del toro di cera come si arrotola una sigaretta, non osò pronunciare la parola. E’ una parola che fa paura. Per di più quei due sbarazzini di Siviglia erano troppo superstiziosi per lasciarsi sfuggire la parola terribile, quando passava un torero, un valoroso che aveva già su di sé la malasorte.

– Allora tu, Paco, credi a quelli che mangiano peperoncino per sputare sul Morenito. Non è vero tutto quello che si dice… Si dice che non potrà riprendersi dopo la cornata che si è buscata a Madrid, però tu l’hai visto passare, come me… qui, con le mule. Forse l’hai riconosciuto. Dicono, quelli che gli fanno il malaugurio, che ha avuto paura, che era geloso del trionfo di Manoel e che, quando Manoel è stato preso dal toro, Morenito avrebbe potuto impedire che il suo compagno fosse spedito all’ospedale in cima ad un paio di corna…

– Sì, non aveva che da correre – gridava Paco. – Ma tu, il tuo Morenito, l’hai visto correre una volta?… Mai.

– E’ troppo fiero.

– Ha avuto paura. Sarebbe bastato che gettasse la capa e il toro era suo. Non aveva più forza che per un ultimo colpo: quello che aprì il ventre a Manoel… E’ un uomo disonorato, El Morenito… Il che non impedirà domani a Manoel di tagliare i due orecchi sulla Maestranza, ed io, com’è vero che mi chiamo Paco, sarò lì a vederlo…

-E tu, Paco, potrai vedere anche l’intera arena in piedi per il Morenito… Tu non credi che domani, davanti ai tori, sarà grande? Grande, capito? Ti hanno detto che era un uomo finito? Vieni, vieni a vedere il manifesto.

– Ma cosa vuoi che significhi il manifesto?

Per leggerlo bastava alzare gli occhi sul muro color ocra.

PLAZA DE TOROS DI SIVIGLIA

FERIA D’APRILE 195…

16 APRILE

SEI TORI DI DIVERSI ALLEVAMENTI

PER I VALENTI

JOSE’ ANGELO

MANOEL DE LANA

JUAN MORENITO

– Domani si vedrà, Paco.

– Domani, si vedrà. Scalda un po’ la cera…

***

Alla vigilai della Feria tutta Siviglia aveva la stessa febbre dei due monelli di Sierpès. Nei caffè facevano circolo intorno all’allevatore, al ganadero, che era disceso coi suoi tori da combattimento della montagna verde.

In mezzo al chiasso all’eccitazione tutti si alzavano dai tavolini per ammirare un’altra manifestazione selvaggia della terra di Spagna e delle argille di sangue: i poledri focosi che venivano fatti passare attraverso il corso.

Cacciate dai tetti, le cicogne bianche intrecciavano lassù in alto i loro arabeschi con la fascia delle nuvole.

In fondo ad una stretta strada che andava a nascondersi sulla riva del fiume, sei mule, lanciate al galoppo: in modo da far sprizzare scintille dal selciato, si fermarono ad una imperiosa tirata di morso. Nel patio un vecchio peón aggiustava dei finimenti. Lì, dietro San Vicente, stava nascoso il palazzo di Juan Morenito, la vedetta dell’arena, il signore dei tori.

L’aitante giovane saltò giù dal calesse e gettò le redini al peón, poi, quasi senza fermarsi, dal primo gradino della scala, che tra poco avrebbe salito con slanci agili come quelli di una bestia selvaggia, si rivolse al vecchio che era rimasto lì impacciato da tutte quelle cinghie.

– Sono su tutti, m’immagino…

– Tutti, e da un pezzo.

– Vicente?

– Anche Vicente. Hanno chiesto di te parecchie volte. Ascoltami, Josè… Josè.

– Non ho tempo.

E il giovanotto, coi capelli sugli occhi, si slanciò su per i gradini di marmo consumati.

Sopra stavano riuniti nella grande camera del torero Juan Morenito, in piedi dietro il letto di parata. Quasi tutta la quadriglia c’era, e anche don Vicente che aveva la faccia del colore del bosso. Don Vicente era un anziano torero che aveva conosciuto anni di gloria. Il suo corpo era tutto una cicatrice. L’avevano ricucito a Madrid, a Sivilia, a La Linea, dovunque il toro aveva tentato di colpirlo al ventre. Era stato don Vicente a fare Juan Morenito, lui l’aveva allevato e imbellettato di coraggio. Perché un torero si costruisce come un’artista della scena, con gli esercizi, le luci e i balletti.

In un angolo, stava Speranza del Sol; la piccola canzonettista che era stata la regina della Settimana Santa, l’amica di Juan, ghigliottinava le lacrime che colavano sulle guance scarne di ragazzina.

– Don Vicente, es tantar a Dios… è tentare Dio.

– Sta’ zitto!

Il vecchio torero troncava la parola al banderillero, Fernando il guercio.

– Sta’ zitto e guardalo… Non ci sente più.

– Sei stato proprio tu a farlo impegnare per la Feria, Vicente…

– E lo farei ancora, se bisognasse rifarlo. Juan non lascerà la Maestranza col disonore…

Juan Morenito non aveva più che un soffio di vita.

Il toro di Madrid era caduto sotto una stoccata che sarebbe diventa famosa; Juan l’aveva data già ferito a morte, tenendo un pugno affondato nell’inguine, ed ora, sul letto di velluti turchini, esangue, senza respiro, stava per morire a causa di quel toro.

– Allora, domani, alla Feria? – diceva timidamente una voce tra gli uomini della quadriglia.

– Per domani vi darò Josè…

– Te lo ripeto, don Vicente, è come tentare Dio… Ah… eccolo Josè!

– Avvicinati – disse don Vicente. Non occuparti di Juan. Tuo fratello non ci sente più… Sei deciso, Josè?

Il ragazzo con gli occhi passò in rivista la quadriglia.

-Loro accettano?

-Per forza accettano – tagliò netto don Vicente. – L’onore di Juan Morenito è il loro onore.

– Sono ai vostri ordini, don Vicente; – disse Josè – però alla condizione che ho posto.

– Siamo intesi, Josè. Vai a riposarti.

Poi, rivolto alla quadriglia, mentre il ragazzo usciva dalla camera:

-Ho giocato tutte le buone carte del nostro Juan. Ho parlato a Manoel de Lana, a Josè Angelo, che sono insieme a Juan sul manifesto del 16. Hanno capito. Non ci sono che le gradinate che ce l’hanno col nostro Juan e fino alla suprema vergogna. Manoel sa che Juan ha fatto tutto il possibile per evitargli la cornata, ma andate a far tacere i beceri che reclamano sangue dai posti al sole. Che cricca c’era a Madrid!

– E’ una truffa…

Era ancora la voce un po’ balbettante del banderillero.

– Non c’è che una truffa per l’uomo: quella dei sugheri sulla punta delle corna! Josè non è per nulla il fratello di Juan. Ha il coraggio nel sangue. Si porterà bene. E’ vero che ha fatto solo qualche corrida di poca importanza, nascondendo il suo nome, ma io l’ho visto, e forse… Suo fratello non voleva che lui facesse il mestiere del torero…

– Ma insomma, Vicente, si vedrà in ogni modo nell’arena che non è più il nostro Juan, ma suo fratello… Hanno un bel rassomigliarsi… Josè…

– Don Josè – interruppe Vicente.

– Don Josè è quasi ancora un bambino.

– Vedrai, Fernando, se è un bambino, anche soltanto alle banderillas. Con la montera e col belletto ci cascheranno tutti.

– Nel circo certamente… ma nel circo Manoel e Josè Angelo avranno istruito i loro uomini. Questi capiranno. Manoela…

La servetta dalle trecce turchine, che come Speranza piangeva, entrò nella camera.

– Manoela, il costume di parata… Quello bianco, quello di Madrid…

– Don Vicente…

La ragazza si copriva gli occhi.

– Ho detto: quello di Madrid.

Lo sapeva bene il vecchio torero che il bianco costume di parata era stato macchiato sulla Plaza e che il sapone, la benzina e i detergenti non avevano del tutto cancellato nella pesante tramatura dei fili d’argento alcune impercettibili macchie rosa del sangue di Jaun Morenito,

***

I Morenito non erano di Siviglia, ma di quelle terre terribili, dove si allevano le bestie da combattimento e dove gli stagni, i boschi che si spingono senza nome sulla montagna, sono talvolta contrassegnati da quello di un toro che fece onore all’allevamento. Juan, il torero dagli occhi di fanciulla, aveva sempre allontanato dall’arena il fratello minore Josè, che aveva gli stessi occhi del fratello maggiore. Josè aveva quindici anni, Juan, ventisette.

Juan, tra una stagione e l’altra delle corse dei tori, faceva vita allegra. Era però noto che aveva buon cuore e le catapecchie dei quartieri di miseria, a Siviglia, dove la vedetta aveva comprato un palazzo, pregavano per il generoso Don Juan, che fermava le mule davanti alla porta e dava elemosine a piene mani.

– Come è giovane, – dicevano le donne – ed è bello come un arcangelo.

Pallidissimo sotto la montera, conservava un aspetto molto giovanile nel circo dei tori, soprattutto nelle notturne in mezzo ai fasci di luce dei proiettori. Ma i quartieri poveri del fiume non avevano mai visto da vicino il brillante torero, Juan El Morenito! Mai! Chi faceva, a suo nome, le elemosine, e appariva così giovane, era Josè, suo fratello. Si assomigliavano in modo straordinario. Juan aveva messo i lfratello minore in un pensionato di Madrid, perciò Josè a Siviglia si vedeva di rado.

Juan non aveva voluto che il fratello si avvicinasse all’arena, ma anche Josè aveva i tori nel sangue. Andava a correre nelle piccole città, temerario come il grande Juan Morenito, e soltanto Don Vicente, che gli aveva dato un vecchio costume giada e oro del fratello, era a parte del segreto. L’indomani, 16 aprile, per la solenne apertura della Feria, sulla gloriosa Maestranza di Siviglia, mentre Juan suo fratello moriva per la cornata di Madri, Josè, come se fosse Juan, si sarebbe presentato al suo posto, davanti ai fieri San Esteban e non più davanti ai torelli di Salamanca.

***

Un vento dorato passava sulla plaza.

Durante la sfilata, sulle gradinate dei popolari, che aspettavano una rivincita, si additarono uno con l’altro colui ch’essi prendevano per l’uomo a cui si stava preparando una bronca, una generale fischiata, quel Juan Morenito che aveva voluto la morte di Manoel de Lana. Per Manoel de Lana, qualunque fosse il suo goco nel circo giallo, tutte le tribune erano pronte a levarsi in piedi e a tributargli una ovazione.

– Si è appena rimesso. Zoppica ancora il nostro Manoel.

– E il senzamacchia, il Morenito, guardalo. Tiene la testa sopra le ginocchia.

Era vero. Manoel, il gitano, nel costume color tabacco, soffriva ancora per la ferita. Josè, quegli che le gradinate scambiavano per Juan, col cappello in testa, chiuso nella montera, veniva avanti a spalle basse. Il primo toro uscì per Manoel. Nonostante la gamba malsicura, egli aveva sempre l’agilità sicura di una fiera a cui è stata appena aperta la gabbia. Era lui la bestia e ci volle tutta l’abilità del torero, fasciato dal lucente costume color paglia bionda, per animare un poco l’innocente toro.

Il secondo era per Josè Angel.

– Attenzione, ha un occhio morto – gridò Manoel nel momento in cui l’Angelo gli offriva la prima capa, dopo due o tre passi mal fatti dei suoi uomini.

– Grazie.

Era vero: il toro, a metà guercio, si sfiniva sulla pista, in tondo, come la stoffa lucida che doveva girare per esso sulla sabbia, richiamando uno solo degli occhi.

Juan, o meglio Josè, poiché a quell’ora sul letto di parata Juan Morenito dava alla piccola Speranza l’ultimo sguardo ancora così bello, chiaro e fiorito, color delle rose un po’ appassite della processione…, Josè prese nella sua capa la bestia furente, pronta a sganciare dalle tavole rosse l’Angelo che un momento prima aveva sbagliato il salto.

– Da solo… – urlavano le gradinate. – E’ in ritardo la tua capa di Madrid. Josè tuttavia lanciò ancora una volta la capa, tenendo i piedi giunti, rigido come dentro un’armatura. Angelo, disimpegnato, riprendeva il toro e questa volta lo guidava in un gioco di finezza straordinaria, un gioco di ricami, di cui egli aveva il segreto.

L’Angelo ebbe l’orecchio e il giro d’onore.

Le porte si aprirono per il toro di José. Era grande…: uno nero, pesantemente armato, ma ben aperto corna. Con un gesto della mano il giovane torero lo diede ai suoi uomini.

La bestia che era rimasta immobile in quel disorientamento che le era provocato dalla luce troppo violenta uscendo dal buio del corral, aveva scorto i figurini, macchie sfuggenti di colore che danzavano sulla sabbia fulva e le facevano segno.

Il mostro caricò e fu come il precipitare in un blocco di granito che sfondò la barriera rossa con uno schianto terribile, mentre il figurino, caduto nel corridoio, si trascinava sul ventre per non essere preso. Lentamente, aggiustando la capa, Josè andava verso il toro.

– Aspetta… – gli aveva sussurrato Manoel sul passaggio. – Ha la morte sulle corna.

La folla aveva capito che Juan, colui ch’essa scambiava per Juan, era oggi deciso a pagare la sua rivincita a qualunque prezzo.

– In ginocchio… in ginocchio – urlavano le gradinate.

Volevano fargli riscattare l’onore inginocchiato…

Josè era lì soltanto per l’onore di Juan e per pagarne il prezzo, non importa quale, che avrebbe certamente accettato Juan Morenito, il Grande, suo fratello.

– Coraggio, piccolo – gli sussurrò di dietro Manoel de Lana – Coraggio…

Ce ne voleva, e non per andare al toro, ma per mettere un ginocchio nella sabbia, davanti alla città.

Com’era obbediente quel nuovo Juan!

– Ah!…

Un grido si levò da tutti i petti. Il torero non aveva avuto il tempo di rialzarsi e in ginocchio, nell’umiliazione per ottenere il perdono di Siviglia, riceveva il toro dagli occhi di sangue. La bestia nella carica cieca l’aveva rovesciato, strappandogli la capa, che ora gli copriva la fronte. Sbuffando, fumando il toro si mise a lacerare sotto gli zoccoli la seta rimasta agganciata sulle corna.

– Fernando!

L’uomo gettò la sua capa al giovane che l’afferrò al volo e ritornò al toro.

– Ah… ah… toro!

L’animale tornava, coraggioso quanto l’uomo, fatto accorto nonostante la stizza, si slanciava in finte, girava sulle pieghe del panno che lo adescava, strappava i ricami d’argento del costume lucente, sotto l’anca e quasi nel dorso dell’uomo. E Josè lo riconduceva col muso sulla capa, spezzava due volte la corsa selvaggia del mostro davanti alla punta dei suoi scarpini, a piedi uniti, bello, grande…

– I piedi nel fazzoletto di Speranza… – beffeggiò una sola voce in quel silenzio in cui il gioco comincia la sua magia, il gioco che dà un senso di oppressione, di soffocamento nella sua bellezza.

Sulle gradinate, nei palchi al sole e all’ombra, tutta l’arena aveva avvertito che si stava per toccare uno di quei momenti in cui, nel circo stregato, il sole, che fa bruciare un inebriante profumo di garofani, trova un uomo solo nella sua forza e nella sua grazia e gli offre già l’aureola…

La bestia consumava in grazia la sua forza mostruosa, la consumava per un indimenticabile balletto della morte. Il torero prendeva il toro con mano d’angelo. Tutta la folla tratteneva il respiro, presa ora fino al cuore dallo spiegarsi di quel gioco di trine.

Lo Juan che avevano fischiato a Madrid, lo Juan che accusavano di aver lasciato vilmente ferire Manoel il gitano, aveva riconquistato la sua città. Fiera, rossa di emozione come una ragazza, e insieme timorosa per il torero a cui ricominciava a voler bene, Siviglia era in piedi sulle gradinate.

Josè, meglio di quanto mai avesse fatto suo fratello Juan, conduceva a suo talento l’enorme toro con passi eleganti che avevano il languore d’un valzer andaluso.

Non una voce, non un grido. Poiché la morte, la più abbigliata, la più corteggiata, mai così vicina, era nel cerchio magico con la coppia che stava facendo la parata. L’uomo era a portata dei corni e due volte la punta strappò la stoffa lucente, due volte il sangue della coscia ricamò di rossi galloni la staffilata superficiale.

In ginocchio! Avevano voluto che il perdono fosse domandato nella sabbia?… Josè sul finire della sua straordinaria difesa riduceva il toro in ginocchio.

Le trombe suonavano la morte.

Siviglia riconquistata attendeva, sicura del trionfo, il suo idolo, il suo più bell’arcangelo della spada e la sua eccezionale stoccata che faceva penetrare la lama fino all’elsa.

Josè offrì alla città l’ultimo toro di Juan, suo fratello.

Dietro gli steccati, Don Vicente, la cui faccia di bosso era lustra come se fosse s tata ricoperta di argilla rossa, trionfava:

– Ora potrà fare tutto quello che vuole.

Lo poteva. Più da lontano richiamò il toro che aveva ripreso fiato e lo fermò bruscamente, come se gli troncasse le zampe facendogli logorare sul posto le ultime forze. Nessuno aveva osservato che Josè aveva le mani nude: né muleta, né spada.

Di faccia alla presidenza, là dove egli aveva voluto che cadesse, il toro lentamente s’inginocchiò davanti a quella torcia lucente che faceva fiammeggiare l’uomo in piedi davanti al muso nero che sbavava sangue.

Josè (era proprio la rivincita di un ragazzo) raccolse tra tutto ciò che le gradinate avevano gettato, fiori, sciarpe, mantiglie, un enorme garofano rosso. Poi si chinò in mezzo alle corna come su una culla, si chinò per infilare il fiore di sangue nel punto in cui la spada cerca di solito la linea di morte.

Piantò il fiore; poi, a capo scoperto, in piedi, salutò la Bestia.

La Bestia in ginocchio, con le corna abbassate, domandava a Siviglia perdono per un grande nome, Juan El Morenito, il fratello di Josè che non avrebbe più conosciuto le acclamazioni dell’arena,

– Los bueyes! I buoi!

I buoi, che erano stati fatti uscire, riconducevano il toro al corral.

Siviglia accettava, invece del suo sangue, le gocce rosse del fiore del garofano.

Il giorno dopo una canzone correva per le strade:

Né muleta, né spada,

un garofano tra le dita…

In ginocchio il toro

Ha domandato a Siviglia

Perdono di un gran nome:

Don Juan El Morenito.

E Siviglia ha accettato

Invece del sangue

Le gocce rosse di un garofano.

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