Accadde nel momento in cui Gesù Cristo saliva con la croce sulle spalle verso il Golgota dove sarebbe morto. Lacrime di sudore scioglievano il sangue che gli rigava la fronte ferita dalla corona di spine. Intorno, il silenzio di chi era colpito dall’orgoglio della sofferenza era spento da grida di disprezzo e risate di scherno. Poi, tra la folla che seguiva il percorso verso la cima, una donna si fece spazio e andò incontro al Nazareno aprendo un lenzuolo bianco. Si fermò immobile, distese il lenzuolo davanti a sé tenendolo con le mani sul petto. Cristo avanzò, la donna mosse un passo impercettibile, poi lasciò che il lenzuolo coprisse il volto dell’uomo che andava alla morte, pulendo sangue e sudore e lasciando sulla sua pelle un’ultima freschezza.
La donna si chiamava Veronica e chiunque studi oggi la vicenda, sa ripercorrerne l’origine. Nessuna Veronica è citata dai Vangeli. Nessuna Veronica distese un lenzuolo di fronte al Nazareno che portava la croce. Si tratta di un mito che è cresciuto nei secoli, e precisamente dal I al XV secolo, a partire dall’emorroissa: una donna che soffre di continue emorragie curata miracolosamente dal tocco del mantello di Cristo. All’emorroissa, qualche centinaio di anni dopo i Vangeli di Marco, Matteo e Luca, viene attribuito il nome greco di Berenice e più tardi ancora quello latino di Veronica. Ma l’etimologia popolare del nome latino apre l’orizzonte di una nuova storia rispetto a quella dell’emorroissa. Veronica: ossia, vera icona, immagine vera. Cresce la storia di una donna che ha posseduto la vera immagine di Cristo. Secondo le prime versioni un’immagine dipinta, secondo le versioni successive, invece, impressa in un sudario da lacrime e sangue. Fino alla storia che tutti conosciamo.
Ma poco importa come il mito di Veronica sia nato. Quel che è certo è che quando l’arte della corrida comincia a svilupparsi sulle innovazioni del toreo a piedi alla fine del XVIII secolo, il primo movimento della tragedia, quello più classico, quello con cui il torero accoglie il toro sul suo cammino verso la morte, viene chiamato verónica. È un gesto di bellezza e perfezione e silenzio. È la cappa che l’uomo distende di fronte a sé, aprendola con le mani sul petto, dopo essere entrato nell’arena mentre il toro è una furia selvaggia e gira sulla pista in cerca del nemico. L’uomo è lì, adesso, è solo, sul pubblico cala un silenzio gonfio e l’uomo sta immobile, i piedi piantati nella sabbia e aspetta l’animale che corre, corre velocissimo verso il panno che vibra nell’aria sotto impercettibili colpetti dei polsi del torero. Il toro si avvicina al massimo della sua furia, l’uomo lascia che il panno si sposti sul fianco, il toro devia la corsa verso il centro del panno e ci si infila dentro senza trovare che la freschezza dell’inganno. La cappa fruscia nell’aria mentre l’animale salta per colpirla eppoi, diretta da un ulteriore colpo di polso, la cappa scivola sul fianco dell’uomo e il toro, quasi imbarcato dentro di essa, ne fuoriesce pronto a caricare di nuovo, ritrovandosi per la prima volta disorientato. È il lenzuolo fresco che comincia a calmare la furia del toro selvaggio, il primo movimento sulla strada della sua ultima lotta. Veronica. La vera icona. La vera immagine, la più vera delle falsità. Perché l’icona è un fantasma, un doppio fuggevole e menzognero, un inganno. E l’inganno più vero è quello dell’immagine. Lo sapevano bene già i Greci. Tanto che la più famosa traditrice di Grecia, Elena, abbandona il Peloponneso diretta a Troia su una nave, secondo la versione classica del mito. Ma secondo molte altre versioni, quel che si allontana da casa non è che un’immagine, un fantasma. Una copia perfetta. La copia della verità, quella che vediamo ogni giorno, secondo Platone. Copie di copie. Simulacri. Menzogne femminee. Veroniche.
(da Il toro non sbaglia mai, Ponte alle Grazie, 2011)