È opinione comune e generalmente accettata che Joselito, ossia José Gómez Ortega, detto al principio della sua carriera Gallito, sia stato il più grande torero di tutti i tempi. La sua capacità nell’individuare il carattere dell’animale, il dominio, la predisposizione a imparare ogni tecnica hanno fatto di questo torero andaluso un mito inarrivabile, il picco, assieme a Belmonte e oltre Belmonte, della cosiddetta Epoca d’oro del toreo. La morte nell’arena ha reso la sua leggenda indiscutibile. Tra le conseguenze negative di questa mitizzazione sta la nebbia che è salita attorno alla straordinaria figura di suo fratello: Rafael Gómez Ortega detto El Gallo. Ne hanno scritto in moltissimi, in effetti. Ma nessuno come Jacques Durand, in un piccolo libro esaltante, intitolato Rafael le Chauve, ossia Rafael il Calvo. El Gallo – scoprii leggendo – era diventato famoso per l’espantada, ossia per la fuga, perché se era capace di entusiasmare le folle con corride da lasciar estasiati, col cuore in mano, tremanti di gioia, era anche capace, improvvisamente, senza nessuna ragione apparente, di mollare tutto e fuggirsene via. L’espantada è un movimento tauromachico ormai in completo disuso. Non se ne vedono più nelle arene di Spagna e in quelle di Francia. A volte da qualche paesino messicano ancora giunge l’eco di un’improvvisa fuga, ma si stenta a credere che si tratti di vera espantada.
«È privilegio di pochi saper scappare bene davanti a un toro; è privilegio dei gitani» scrive Max David prima di dedicare un intero capitolo del suo capolavoro Volapié all’argomento che – dice lui – più lo ha appassionato in vita, dopo l’arte di cavalcare e la tauromachia: «l’argomento gitanesco». L’espantada, secondo David, è tipicamente gitana perché nessuno come i gitani conosce alla perfezione «la tecnica della fuga» perché «gli zingari hanno gli occhi pieni di paura. E forse, le espantadas di Rafael El Gallo e le espantadas dei violinisti tzigani non sono che la trasfusione in tauromachia e in musica del perenne fuggire gitano». Ma cosa accadeva precisamente a El Gallo è Durand a raccontarcelo. Lo fa nello stile del suo libriccino, inanellando episodi e curiosità, anche perché teorie sul Calvo sublime non se ne possono fare se non per dire in una frase che è «il colpo di stato dell’immaginario contro l’impero della ragione». Di razionale, infatti, in questo gitano c’era davvero poco. Non sapeva spiegare quel che aveva fatto nell’arena quando spettatori e critici lo osannavano come il Messia di un pomeriggio irripetibile e a chi poi avrebbe insistito con le domande rispondeva che della propria faena lui stesso non aveva capito nulla, e semmai sapeva soltanto una cosa: aveva pianto. El Gallo, superstizioso e dominato da forze oscure, capace di trionfi epocali e di crolli vergognosi. «In lui il sublime si mescola all’assurdo» disse un giovane John Dos Passos. Ma non bastava a spiegare cosa gli accadesse quando la paura lo prendeva per mano tutto a un tratto, magari davanti a un toro immobile e apparentemente inoffensivo, quando il panico gli strozzava la gola e lo spediva lontano dall’arena, generalmente nell’infermeria o comunque via dallo sguardo dei tori che non voleva più uccidere. Una questione chimica, un’improvviso crollo, la subitanea certezza che quel toro non facesse per lui, che avesse capito benissimo la sua paura e non fosse più possibile ucciderlo. Allora, scavalcava la barriera come nessun torero dovrebbe mai e se ne andava a fumare il sigaro altrove. I suoi sostenitori avrebbero voluto picchiarlo, i suoi nemici cercavano bastoni per colpirlo davvero, i gendarmi venivano spediti a riprenderlo o a portarlo dritto in prigione. Lui se ne infischiava. «Quel toro, Signor Governatore» disse il giorno di una famosa fuga «quel toro aveva tutta la chimica. Avete visto che aveva l’occhio di pernice? Chi è il padre di quel toro? Vorrei sapere chi è il padre». Il Governatore gli rispose: «Quando si prendono 10.000 pesetas non ci si può comportare così». El Gallo sorrise: «Non 10.000, Signor Governatore. 11.000».
Niente da fare, El Gallo fuggiva i tori quando qualcosa improvvisamente gli diceva che le cose non sarebbero andate bene. Il colore del manto, lo sguardo, il passo, le corna e molta superstizione e, in genere, un’idea, l’unica idea che Durand riesce a enucleare come una sorta di legge: la sproporzione. Per El Gallo la paura si scatenava con la sproporzione, ossia con la percezione che il toro cresceva di misura e che lui invece diminuiva. Qualcosa che, secondo il Divino Calvo, un vero scienziato, e in particolare un fisico, prima o poi avrebbe potuto spiegare. Non un fenomeno ottico né l’effetto di assunzione di bevande alcoliche. Il toro diventa gigante e l’uomo una specie di nano. Quel che segue è un movimento inevitabile: il salto oltre la barrera, perché c’è solo la sottilissima barriera di legno a dividerci dalla salvezza e basta saltarla come un vero torero. «Meglio cinque minuti di fischi che cinque settimane in ospedale» disse, secondo quanto riferisce una delle ultime raccolte di aneddoti taurini intitolata No puede ser y además es imposible, frutto della penna di Rubén Amón. El Gallo, gitano d’altri tempi. Sposò la migliore flamenchista dell’epoca, Pastora Imperio, in un matrimonio da copertina per qualche mese, fin quando lui non scese a comprare un pacchetto di sigarette e non tornò più. Mai nessun altro amore nella sua vita, però. Solo i tori, la grazia davanti ai tori e la paura dei tori e la paura della vendetta di Pastora Imperio. La vedeva ovunque, e un giorno la vide entrare nella sua stanza poco prima di una corrida a Lima. La vide entrare in forma di mosca nera, era davvero convinto che fosse lei, lo disse ai suoi aiutanti, la indicò ronzare nell’aria, spiegò che gli portava una cattiva notizia, dunque niente tori quel pomeriggio, alla corrida non sarebbe andato. I suoi banderilleros lo guardarono allibiti, insistettero. El Gallo sentenziò: solo se fosse entrata una colomba bianca dalla finestra avrebbe toreato. Uno dei suoi aiutanti uscì, corse per le strade di Lima, trovò una colomba bianca, si arrampicò sulla facciata dell’hotel, lasciò entrare la colomba. El Gallo scese all’arena, non ebbe paura e diede una lezione di torería unica, la gente pianse sugli spalti e lui ebbe due orecchie e una coda da portare in trionfo.
(da Il toro non sbaglia mai, Ponte alle Grazie 2011)
Joselito più grande di Belmonte? Io direi che Belmonte è stato più emblematico di Joselito, non fosse altro per aver innovato il modo di toreare, forse lo hanno innovato insieme, ma personalmente considero Belmonte il Michael Jordan del toreo, colui che è stato capostipite di un nuovo modo di toreare, così come Jordan ha iniziato a “volare” nella pallacanestro Belmonte si è avvicinato così tanto al toro da poterlo sfiorare.
Sono stati i due più emblematici sicuramente, ma io preferisco Belmonte, sarà anche per la vita che ha vissuto e che ho avuto il piacere di sentirmi raccontare dal vivo da una donna che ha condiviso parte della sua vita con lui.