Questo articolo è uscito su Alias, il Manifesto, che ringraziamo
Aveva messo piede in territorio spagnolo già due volte, ma solo di passaggio e senza immaginare che quel luogo che aveva trovato da subito cosi fascinoso, culturalmente agli antipodi rispetto al cupo mondo anglosassone dal quale proveniva, per lui sarebbe diventato una vocazione, più che una semplice destinazione. La prima volta transitò in Spagna nel 1919, per un breve scalo ad Algeciras, l’Africa spagnola, mentre tornava negli Stati Uniti dopo aver prestato servizio in Italia. La seconda nel ’21, diretto a Le Havre a bordo di un transatlantico che fece sosta a Vigo, in Galizia. Una città che “sembrava di cartone”. Ma il primo viaggio ufficiale di Ernest Hemingway in Spagna porta la data del 1923, giusto un secolo orsono. Tecnicamente fu formalizzato a Rapallo, dove si era recato a cavallo tra l’inverno e la primavera del ’23 con la prima moglie Hadley per far visita al suo amico Ezra Pound, che a quei tempi ancora non smetteva di elogiare. “Pound mi ha insegnato a diffidare degli aggettivi, come poi imparai a diffidare di certa gente”. Non
trovandolo, e annoiandosi da morire, in quel soggiorno di due settimane scrisse un magnifico racconto ambientato proprio a Rapallo, “Gatto sotto la pioggia”, che riusciva a rendere nobile anche la monotonia: “Pioveva. La pioggia gocciolava dai palmizi. L’acqua stagnava dalle pozzanghere sulla ghiaia dei sentieri. Il mare si rompeva in una lunga riga sotto la pioggia e scivolava sul piano inclinato della spiaggia per tornare a rompersi di nuovo in una lunga riga sotto la pioggia…”.
Fu in quel piccolo lembo di Liguria affacciato sul mare che fece amicizia con Robert McAlmon, un intraprendente ragazzo di ventisette anni dai gelidi occhi blu, anche lui expat a Parigi in quei famelici anni Venti, che si era accasato con un’ereditiera inglese che tutti consideravano lesbica e che aveva appena lanciato una nuova casa editrice, la Contact Editions, l’indirizzo di posta era quello della leggendaria libreria Shakespeare and Company di Sylvia Beach, che in seguito avrebbe pubblicato i primi lavori di Hemingway. Severo, per nulla accomodante, poco incline alle seduzioni o ai facili entusiasmi, fu uno dei pochi a non cadere nell’adorazione Hemingwayana tout court. “Un ragazzo sensibile che cerca di nascondere il dolore – lo definì ai tempi – che vuole essere coraggioso ma che sembra sempre sulla difensiva”. I due non si ameranno mai, troppo diversi in tutto, a cominciare dall’ambizione, ma fu proprio McAlmon a finanziare il loro primo viaggio spagnolo.
A suggerire la meta era stata naturalmente la signorina Gertrude Stein, come la chiamava Hemingway, “occhi bellissimi e corporatura massiccia di una contadina”. Ispiratrice della fin troppo abusata definizione di lost generation, coniata in realtà per la prima volta da un innocuo garagista ma poi utilizzata per definire una generazione di anime perse uscite frastornate dalla Guerra, e portavoce de facto di una nuova corrente letteraria che voleva disfarsi una volte per tutte di quella soffocante prosa vittoriana – “Huxley è un cadavere. Perché vuoi leggerlo?” Intimava con tono minaccioso a un giovane Hemingway – all’epoca era la stella indiscussa dell’olimpo culturale parigino, che era solito ritrovarsi nel suo privatissimo studio-appartamento al 27 di rue de Fleurus, a sorseggiare Eau-de-vie, spilluzzicare pastìccini alla frutta e decantare la raffinatezza delle opere dei suoi amici Picasso, Braque e Cézanne, appesi in salotto. Supponente, critica nei confronti di chiunque non avesse avuto il suo benestare, presuntuosa, non disdegnava affatto l’appellativo di genio, aveva la tendenza ad andare oltre il suo importante ruolo di animatrice culturale e sperimentatrice: “nessuno ha fatto nulla per sviluppare la lingua inglese dai tempi di Shakespeare, tranne me”, disse una volta. “Forse Henry James”, pare abbia aggiunto in un impeto di generosità.
Furono lei e la sua compagna Alice B. Toklas a parlare per la prima volta allo scrittore americano di quella sconosciuta ancestrale tradizione spagnola chiamata corrida. Gli raccontarono le loro scorribande in terra di Spagna con tutto il loro entusiasmo un po’ naif, e gli mostrarono alcune fotografie, probabilmente scattate a Valencia qualche anno prima, dove la coppia si era fatta immortalare nientemeno che in compagnia di Joselito el Gallo, considerato dagli aficionados il più grande matador della storia, colui che terminò la sua giovane esistenza come ci si potrebbe aspettare da un torero con la T maiuscola: incornato in una plaza di paese davanti a migliaia di persone che applaudono, strillano e piangono, immaginando che d’ora in avanti la corrida non sarà mai più la stessa. Storie sufficientemente tragiche da sollecitare la fantasia e la curiosità di un giovane ambizioso scrittore alle prime armi, che prima ancora di osservare una corrida dal vivo aveva già scritto un piccolo racconto sulla rivista The Little review, dove un giovane e inesperto torero si trova costretto a uccidere tutti i tori dopo che gli altri matador erano stati feriti e messi fuori gioco.
Una sorta di ossessione stava lentamente montando. Cosi, nel maggio del 23, in compagnia di Robert McAlmon e del giornalista e editore Bill Bird, salì su un treno destinazione Madrid. Aveva con sé pochi spicci, qualche vecchio indumento e in tasca una mappa disegnata sul retro del menu di un ristorante svedese di Parigi dal suo amico Henry Mike Straten, un pittore laureato a Princeton ma anche lui residente nelle città della Belle Epoque, che conteneva basiche ma fondamentali informazioni per una prima trasferta madrilena: l’indirizzo del più antico ristorante di Madrid (qualcuno dice del mondo), Casa Botìn, dove ancora oggi regna sovrano il maialino arrosto, il nome della pensione in via San Jerónimo dove si appoggiavano i toreri, Pensión Aguilar, e alcuni consigli su come districarsi tra le innumerevoli sale del museo Prado per incrociare le tele di Domínikos Theotokópoulos, in arte El Greco.
Arrivati in città verso l’ora di pranzo, dopo oltre ventiquattr’ore di viaggio, si precipitarono nella zona dell’arena, si misero immediatamente in coda e dopo due lunghe ore di attesa riuscirono nell’impresa di rimediare due biglietti di prima fila (costo 25 pesetas cadauno), proprio nel punto in cui sarebbero usciti i tori. Non avevano ancora visto la città, ma erano già pronti per assistere alla loro prima corrida. Disgustosa, secondo McAlmon, anche per via di una folla volgare e con tratti di marcata brutalità. Magnificamente tragica per Hemingway. “La cosa più bella che abbia mai visto”, scrisse a un amico. Come “avere un posto in prima fila in guerra senza che ti succedesse nulla”. Di quell’appassionato pomeriggio scriverà in maniera dettagliata nel noto articolo “Bullfighting is not a sport – it is a tragedy”, pubblicato su The Toronto Star Weekly il 20 ottobre ’23: “Abbassando la testa mentre usciva dal recinto buio, un toro entrò nell’arena. Uscì di corsa, grosso, bianco e nero, pesava più di una tonnellata e si muoveva a un leggero galoppo. Appena uscito, il sole sembrò abbagliarlo per un istante. Rimase come congelato, la grande cresta di muscoli sollevata, gli occhi che si guardavano intorno, le corna puntate in avanti, bianche e nere e affilate come aculei di porcospino. Poi caricò. E mentre caricava, improvvisamente capii cosa era la corrida”.
Hemingway “è sempre stato ossessionato dalla morte e penso che abbia trovato in Spagna una visione della morte intesa come accettazione, come prolungamento della vita, radicalmente diversa da quella cupa e tetra tipica della cultura anglosassone”, spiega Ricardo Marin, studioso dello scrittore americano e professore di letteratura all’università di Castilla-Mancha. “Una particolare visione dell’esistenza perfettamente incarnata dallo spirito della corrida. Credo che questo sia un aspetto molto importante per provare a comprendere la sua lunga relazione con la Spagna”. Per dirla alla Garcìa Lorca in “Teoria e gioco nel Duende”: la morte non è una fine.
Successivamente la banda, negli anni a venire ribattezzata cuadrilla, iniziò una sorta di pellegrinaggio andaluso a caccia di arene e matador, Siviglia, Granada, Ronda – “what the hell is Ronda?”, chiese Hemingway al suo amico Bill una volta scoperta una delle tappe. “A big canyon”, si sentì rispondere – prima di far ritorno in Francia. Ma neanche un mese dopo lo scrittore americano e sua moglie Hadley, incinta di sei mesi, erano nuovamente in viaggio verso la piccola e sconosciuta città di Pamplona, sulle colline della Navarra, per assistere alla Fiesta de San Fermín dove, almeno a giudicare dagli echi che giungevano fino alla Ville Lumiére, si diceva che si ballasse e danzasse ininterrottamente per un’intera settimana mentre valorosi giovanotti vestiti di bianco e con fazzoletto rosso al collo sfidavano la suerte appena dopo l’alba correndo fianco fianco ai tori per ottocentocinquanta adrenalitici metri. Il famigerato Encierro.
Il resto è storia, come si suol dire. Hemingway tornò a Pamplona l’anno successivo, in compagnia tra gli altri dello scrittore John Dos Passos, e ancora nel ’25, dove finalmente trovò il materiale umano e letterario che stava disperatamente cercando dal giorno del suo arrivo in Europa per scrivere il suo primo benedetto romanzo: quella meraviglia di The Sun Also Rises (Fiesta nella traduzione europea). Il testo che ha introdotto i lettori al XX secolo. “Nessun altro ha avuto lo stesso impatto, neanche Fitzgerald”, scrive Lesley Blume in Everybody Behaves Badly, il libro che ricostruisce la travagliata storia di The Sun Also Rises. “Il Grande Gasby divenne la Bibbia dell’età del jazz, un mondo che Fitzgerald aveva contribuito a creare. Diede all’epoca un ritmo, come disse di lui Zelda anni dopo, ma rimase pur sempre un romantico. Hemingway, invece, cambiò quel ritmo, informando il pubblico che quella generazione non era solo spensierata, ma persa”. Lo scrittore americano si recò nove volte a Pamplona per assistere all’Encierro. L’ultima nel 1959. Oggi sappiamo che due giorni prima di suicidarsi, il 2 luglio 1961, cancellò una prenotazione per tornarci.