Esce oggi in tutte le librerie Corpi speciali, nuovo libro di Francesca d’Aloja, autrice di cui conosciamo già molto bene l’afición grazie al film Sol y Sombra. Una carrellata di ritratti immerge il lettore in quella dimensione in cui domina il corpo a corpo a cui uomini e donne si consegnano confrontandosi con se stessi e la propria finitezza. Incontriamo figure che sembrano al di là dell’umano e che invece Francesca d’Aloja ci restituisce nella loro immediatezza, nel loro vero eroismo, quello che è alla portata di tutti, in realtà, perché non significa altro che realizzare se stessi. Gli incontri personali (Vittorio Gassman, Laura Antonelli, Claudio Caligari, fra gli altri) si mescolano agli incontri mancati – per necessità come Ernest Shackleton, il grande esploratore, o per caso come un torero, o forse il torero, certo quello che d’Aloja si limita a chiamare “Il Samurai”. Da questo magnifico capitolo ecco l’anticipazione di un estratto. (Corpi speciali, La nave di Teseo, pp. 176, euro 17).
Non è al culto della corrida che vorrei avvicinarvi ma a quello di José Tomás.
E comincerò con brevi note biografiche perché seppure di lui si parla come di un essere soprannaturale, egli è nato, è vissuto e vive.
Il 25 agosto del 1975, a Galapagar, Isabel dà alla luce (il termine più adatto per la nascita di un torero) José Tomás Roman Martin, il primo dei suoi quattro figli. Il nonno Celestino, autista di toreri, porta con sé il nipotino a vedere le corride all’Arena di Las Ventas a Madrid. E lì il piccolo Tomás capisce il suo destino. Prima corrida da novillero a 16 anni, Alternativa nel ’95 in Messico dove riceve l’investitura di matador de toros e anche la prima di una lunga serie di cornate. In quell’anno disputa 35 corride e sin dagli esordi le cronicas taurinas danno fiato alle trombe: “È arrivato José Tomás e d’ora in avanti esisterà un prima e un dopo.” (“El País”). “Questo ragazzo è diverso dagli altri. Questo ragazzo è incommensurabile. Non so quanto potrà durare.” (“El Mundo”). Finalmente la retorica trombona, nostalgica della lirica tributata ai compianti Belmonte e Manolete, Ordoñez e Dominguin può tornare a squillare: non esiste infatti nulla di più enfatico, magniloquente e declamatorio di una crónica taurina ma anche di un qualsiasi testo letterario, pamphlet, saggio o articolo che tratti di corride. È come se la materia non potesse essere descritta altro che con accenti ridondanti, e seppure confesso di aver letto migliaia di pagine sull’argomento ad alta voce gonfiando il petto e impostando il timbro vocale con sommo divertimento, cercherò di evitare quei toni esattamente come fa Tomás, il torero più antiretorico della Storia.
A conferma di ciò, un lungo elenco di negazioni. La parola chiave del lessico di JT è NO. Non frequenta gli altri toreri, non fa il tradizionale passaggio nella cappella prima delle corride, non brinda (dedica) mai un toro a nessuno, concedendosi il lusso di non fare eccezione nemmeno davanti al Re, suo grande ammiratore. Tranne una piccola immagine di Cristo cucita all’interno della montera (il copricapo) per ragioni affettive (è un regalo di sua madre), non porta con sé immagini della Vergine (imprescindibile per tutti gli altri), non prega, non fa il segno della croce prima di esibirsi. E perché? “Perché affido la mia sorte unicamente a me stesso”. Eppure il suo modo di affrontare il toro, offrendo e immolando il suo corpo ogni domenica di corrida non ha nulla di laico. La sua unica superstizione consiste nel non prendere l’ascensore quando indossa il traje de luces, l’abito di luci, la divisa del torero. Ma la negazione più clamorosa Tomás la riserva alla stampa e alla televisione: non concede interviste dal ’99 e proibisce le riprese televisive delle sue corride. JT nega se stesso, non si concede, non si pronuncia. “Non voglio fare interviste, voglio sparire.”
Sparire. Lo ha fatto davvero, JT. Nel 2002, senza fornire alcuna spiegazione, si ritira. Ha ventisette anni ed è al culmine della carriera. Rinuncia a contratti milionari, ma la conseguenza più grave è che milioni di aficionados devono rinunciare a lui. Non si sa bene cosa abbia fatto nei cinque anni di ritiro sabbatico. È andato a pesca, ha giocato a pallone (prima che il toreo soppiantasse ogni altra cosa, JT pensava di diventare un calciatore), ha letto molti libri, ha incontrato una donna della quale non si conosce nulla tranne il nome: Isabel, come quello di sua madre. Di sicuro si allena, non solo in previsione di un ritorno, ma perché non può farne a meno. Nella sua casa di Estepona (davanti alla quale passai diverse ore sperando di vederlo uscire, spinta da un’infantile e fanatica ammirazione ma anche per una ragione che più avanti spiegherò) c’è una grande sala completamente ricoperta di specchi compreso un piccolo spazio sul quale spicca una foto in bianco e nero di Manolete mentre esegue uno dei suoi famosi pase de pecho.Compreso e non escluso perché quell’immagine non è altro che un’ulteriore superficie in cui riflettersi, è forse lo specchio per eccellenza per JT, il riflesso in cui fondersi e replicarsi. È qui che quotidianamente pratica il toreo de salón, l’allenamento senza il toro. È qui che studia il temple e affina i movimenti.
E intanto, lì fuori, un esercito di aficionados orfani del loro idolo attende il suo ritorno.