di Riccardo Pasqualin
Il Doge di Venezia Vital (o Vitale) II Michiel (?-1172, in carica dal 1155) fu l’ultimo a diventare tale per designazione popolare, mentre, dopo la sua morte, entrò in vigore il nuovo sistema elettorale a suffragio ristretto (11 membri). Il nome di questo patrizio, tuttavia, è stato reso celebre soprattutto da una famosa azione militare.
Sotto il Michiel, Venezia si alleò con il pontefice Alessandro III (1100 ca.-1181, Papa dal 1159) appoggiandolo nella sua politica anti-imperiale, in opposizione a Federico I Barbarossa. In questo contesto, nel 1162, il filogermanico Patriarca di Aquileia, Ulrico di Treffen o di Treven (?-1182) – nobile bavarese investito l’anno precedente dal Barbarossa – assalì Grado sapendo che i veneziani erano impegnati nella lotta contro i ferraresi e i padovani, ma il Doge riuscì a sconfiggerlo e a farlo prigioniero insieme a dodici canonici e ad alcuni castellani del Friuli, suoi alleati.
Il trionfo veneziano accrebbe molto il prestigio di Vital II Michiel presso il suo popolo e lo portò a essere ricordato in una festa propria del carnevale, quella del giovedì grasso, che venne allora istituita.
Raggiunto dalla supplica di Alessandro III, il Doge accettò di liberare Ulrico dietro un forte riscatto, ma costrinse il prelato a sottoscrivere una curiosa clausola: ogni anno, in occasione del giovedì grasso, il Patriarca di Aquileia avrebbe dovuto inviare a Venezia dodici porci e altrettanti pani grossi di farina, mentre più tardi all’offerta fu aggiunto anche un toro. Ovviamente si trattava di un chiaro riferimento al Patriarca (il toro), ai castellani (i pani) e ai canonici (i maiali). La festa aveva quindi un potente significato politico: si tagliava la testa al toro e si squartavano i suini, le cui carni venivano utilizzate, quello stesso giorno, per sfamare financo i prigionieri. A Palazzo Ducale, nella sala del Piovego, si teneva poi un’ulteriore cerimonia allegorica, in cui il Doge distruggeva con una mazza alcune piccole fortezze di legno, che simboleggiavano i manieri dei castellani furlani.
È a questi eventi che la saggezza popolare fa risalire espressioni come “tagliare la testa al toro” e “prendere il toro per le corna”.
Nel 1796 – proprio quando la Repubblica di Venezia era prossima alla fine – l’incisore udinese Francesco del Pedro (1740-1806), da tempo residente nella Dominante, iniziò a collaborare con il tipografo Giuseppe Maria Picotti (1757-1838) per la realizzazione di una serie di incisioni dedicate ai Fasti Veneti: ovvero la Collezione de’ più illustri fatti della Repubblica Veneziana insino a Bajamonte Tiepolo. Fra queste stampe, la numero 25 immortala Ulrico Patriarca rimesso in libertà a condizioni umilianti ed è corredata da un commento che ben riassume le vicende storiche rappresentate: “Essendo Doge Vital Michiel II circa l’anno 1162, Ulrico Patriarca di Aquileja con una truppa raccolta nel Friuli sorprese Grado, e se ne impadronì. Ma mentre ne ammassava le ricchezze per trasportarle in Aquileja, ecco il Doge co’ bravi suoi Veneziani riacquistare Grado e fare prigione con dodeci Canonici che lo seguivano l’ardito Patriarca. Condotti in catene a Venezia, vennero accolti tra le beffe e gli urli della moltitudine, e dovettero sottoscrivere per ottenere la libertà un trattato de’ più umilianti. Tra le altre cose si obbligarono di spedire ogni anno a Venezia pel Giovedì grasso un toro, e dodici porci, a’ quali venia tagliata la testa tra le grida della moltitudine, onde fossero un perpetuo ricordo a’ Patriarchi di Aquileja di contenersi entro li giusti limiti di ossequio verso la Repubblica. Questa festa in progresso parve troppo ridicola, e si conservò l’uso solo del toro, cui annualmente si taglia la testa fra gli spettacoli di tal giorno”.
Nella vecchia stampa il prelato è ritratto mentre firma mestamente le condizioni impostegli dai veneziani e sullo sfondo (anacronisticamente) si scorgono già degli uomini – sicuramente membri della corporazione dei fabbri, come si vedrà più avanti – che trascinano giocosamente il toro per le corna. Fu il Serenissimo Principe Andrea Gritti (1455-1583, Doge dal 1523), durante il suo dogado, ad abolire la mattanza dei maiali, ma elevò a tre il numero dei tori da abbattere.
Le didascalie dei Fasti Veneti furono dettate dall’Abate Francesco Boaretti (1748-1799), ma il grande progetto di una storia illustrata delle glorie di Venezia venne interrotto dai disegnatori nel 1797, quando sorse il governo democratico. Comunque l’idea era ottima e fu ripresa e sviluppata dallo storico dell’arte Francesco Zanotto (1794-1863) che concepì così la sua elegante Storia Veneta in centocinquanta tavole (1852), coi meravigliosi disegni del triestino Giuseppe Gatteri (1829-1884). Questo lavoro congiunge la bellezza delle illustrazioni a dei testi brevi ma curati, e pone lo Zanotto come un autentico precursore della divulgazione storica in ambito veneziano. Anche in questa raccolta non manca la Festa per la vittoria conseguita sopra Ulrico Patriarca d’Aquileia degnamente rappresentata dal Gatteri. Zanotto descrisse così i festeggiamenti del giovedì grasso: “Tosto che spediti erano dal patriarca gli animali pattuiti, venivano custoditi nel palazzo ducale fino al dì stabilito. – Il giorno innanzi erigevasi nella sala del Piovego alcuni castelli di tavole rappresentanti le fortezze friulane, raccogliendosi ivi poi il magistrato del Proprio, il quale pronunziava sentenza di morte contro il toro ed i porci. – Al corpo de’ fabbri, per essersi distinto in quella guerra, spettava tagliare al toro la testa. – Per ciò la mattina del Giovedì grasso, armati di lance e di scimitarre accorrevano i fabbri al palazzo ducale con alla testa il loro gonfalone e preceduti da stromenti. – Ad essi venivano consegnati gli animali, i quali erano con molto apparato guidati sulla piazza maggiore, ove alla presenza del doge e della signoria si mettevano a morte. –Eseguita la quale, il doge col suo seguito portavasi alla detta sala del Piovego, ove innalzati erano que’ simulacri di castella, e dato di piglio ad un bastone armato di ferrea punta, aiutato dal popolo accorrente, gli atterrava in modo che più non rimanesse traccia di essi; e ciò per adombrare la vendetta che sarebbesi fatta sopra i castellani feudatari, se mai avessero favorito le ingiuste pretese de’ patriarchi aquileisi sulla chiesa di Grado”.
Tornando a noi, nel ’500 in Italia era ampiamente diffusa la “cazza del torro”, e a Venezia la storia degli spettacoli pubblici con i bovini proseguì ancora a lungo. In città le cacce ai tori furono di gran voga nel Settecento e si pose fine a questi spettacoli solo all’inizio dell’Ottocento. Invero, quindi, le mattanze dei tori non si tenevano solo a carnevale, bensì praticamente a ogni festa pubblica, quando i campi più grandi della capitale venivano preparati come delle arene.
A Venezia il campo è l’equivalente di una piazza (mentre il campiello equivale a una piazzetta e la corte a una piazzetta ancora più piccola). L’origine di questa espressione caratteristica va chiarita; in principio le case veneziane erano rivolte verso i canali, mentre sul retro vi erano dei campi coltivati, con alberi e animali da cortile. L’aumento del numero di edifici fece gradualmente sparire le zone coltivate e gli spazi rimasti, pur mantenendo il nome di campi, assunsero l’aspetto e le funzioni che in Terraferma hanno le piazze: nei campi si svolgevano tutte le principali attività di aggregazione sociale e religiosa.
Le cacce del toro erano eventi molto seguiti e costituivano uno dei tanti momenti della vita popolare in cui si rafforzava il senso di appartenenza dei cittadini alla comunità. Le cacce dei tori si tenevano soprattutto presso Campo San Geremia, Campo San Giovanni in Bragora, Campo Santa Maria Formosa, Piazza San Marco (che è il solo campo che si chiama effettivamente piazza), nel cortile interno di Palazzo Ducale, in Campo San Giacomo dell’Orio, in Campo Santa Margherita, in Campo Santo Stefano e in Campo San Polo. Piazza San Marco ospitava simili giochi solo in occasione delle visite di principi stranieri (famosa la caccia allestita per la visita dei Principi ereditari di Russia, Paolo Petrovič e Marija Fëdorovna, giunti a Venezia nel gennaio del 1782 sotto il nome di “Conti del Nord”), mentre a Palazzo Ducale succedeva solo l’ultima domenica di carnevale, ma coi tori molai, ossia sciolti. Abitualmente, invece, gli animali erano legati per le corna con delle funi, tenute ben strette dai veri protagonisti delle feste: i tiratori. Incitati dalla folla, costoro cominciavano a strattonare i tori, “aiutandoli” a evitare le fauci di alcuni grossi cani appositamente addestrati, che cercavano di azzannare i bovini alla gola o di mordergli le orecchie. In realtà i tori veri erano pochi e spesso la maggior parte delle bestie erano buoi.
Per rendere il tutto più spettacolare, tra le corna dei tori erano accesi dei fuochi d’artificio, che ovviamente li terrorizzavano. Traumatizzati e malridotti, i tori venivano così avviati al macello, dove – come da usanza – erano decapitati con un solo colpo. Talvolta, per rendere i giochi ancor più pittoreschi, come “tiratoro” veniva scelta anche qualche cortigiana. Ermolao Paoletti, nel quarto volume della sua opera Il Fiore di Venezia (1840) riporta che “talvolta ebbero luogo in un medesimo giorno due caccie in due piazze differenti”, “I tiratori andavano il giorno innanzi alla festa a fare scelta dei tori, che otto erano o dodici, e per le grandi caccie ventiquattro, pagando per ogni toro sei od otto lire. […] Per lo più erano due i tiratori per ogni toro, e quando era un solo uomo godeva la fama di tira toro a un cao solo. Questi lottatori vestivano di corto, qual era l’uso dei due ultimi secoli passati; i loro calzoni erano per lo più di velluto nero; aveano giubboni di scarlatto o di drappo; e quelli che appartenevano alla fazione castellana aveano rossa berretta, e nera se erano seguaci della parte nicolotta”, infatti la popolazione veneziana era anticamente divisa in due fazioni: i castellani (i rossi) e i nicolotti (i neri). Riguardo questo argomento mancano le certezze storiche e tutto tende a perdersi nella leggenda metropolitana, ciononostante, sin dai tempi del Doge Sebastiano Ziani (1102 ca.-1178), che fu in carica dal 1172 al 1178, si ha notizia della presenza della divisione tra i castellani (cioè gli abitanti dei sestieri di Castello, San Marco e Dorsoduro) e i cannaruoli (residenti nei sestieri di San Polo, Santa Croce e Cannaregio, che erano ancora ricchi di canneti); nel 1307, ai cannaruoli furono poi assegnate anche cinque contrade di Dorsoduro (San Nicolò dei Mendicoli, Angelo Raffaele, San Basegio, Santa Margherita e San Pantalon) e furono ribattezzati, appunto, nicolotti. I castellani vivevano nella zona orientale della città di San Marco e fra loro molti lavoravano nell’Arsenale, i nicolotti si concentravano invece dalla parte opposta della città e si dedicavano soprattutto alla pesca.
Altri tiratori “comparivano, ma di rado, vestiti con maschera di pantalone o di arlecchino per non essere conosciuti a cagione della nobile e civile condizione loro”. I festeggiamenti del giovedì grasso, che si erano mantenuti inalterati sin dai tempi della detta riforma del Gritti, scomparvero nel 1797, con la caduta del governo aristocratico. Nei primissimi anni dell’Ottocento, però, i giochi con i tori non erano ancora percepiti come grotteschi o crudeli e solo una tragedia segnò il tramonto di questo costume.
L’ultima “corrida” veneta si tenne il 22 febbraio 1802, in Campo Santo Stefano, dove si era raccolta una grande folla. In quell’occasione, a causa del carico eccessivo, uno dei palchi crollò e fu travolto da un toro. Morirono molti spettatori e tale incidente decretò l’abolizione della caccia del toro. Oggi, tuttavia, il toro permane come simbolo del carnevale veneziano, ma non si tratta più di una bestia viva, bensì di una grande statua costruita appositamente, che rievoca la gloriosa vittoria del 1162.