La Plaza di Picasso
Picasso fu un grande appassionato di tori. Nelle sue opere grafiche, pittoriche, in quelle plastiche, specie nelle ceramiche, si trovano infiniti richiami, rimandi e vere e proprie descrizioni. Ma non solo. Lui stesso s’immedesimò nel cuore dell’incontro fra uomo e animale e incominciò a vedere se stesso come Minotauro e, quindi, in parte toro, rapito dalla sua furia creativa, vitale, esistenziale. Il toro, la corrida erano, poi, per lui, la Spagna stessa, martoriata e preclusa: c’è quindi anche un elemento nostalgico e persino politico riscontrabile in quella produzione. Il grande pittore del resto, ebbe a lungo, accanto al castello di Vauvenargues, nel Dipartimento delle Bocche del Rodano, sua proprietà pur senza mai risiedervi, un’arena mobile, di quelle che si usano nelle ferias di paese, dove proponeva agli ospiti spettacoli taurini incruenti, tranne nelle occasioni in cui venivano a torearvi Dominguín o qualche altro matador. In quelle occasioni, capitava che qualche novillo, venuto dalla Spagna, dovesse subire la suerte suprema.
Forse, però, non tutti sanno che la passione taurina dell’artista fu molto vicina a sfociare nella creazione di una grande arena moderna, che l’artista pensò a lungo proprio assieme a Dominguín e all’architetto catalano Antonio Bonet Castellana (Barcellona 1913 – 1989). Picasso e Bonet si erano conosciuti già nel lontano 1937 a Parigi, in occasione dell’Esposizione Universale quando entrambi lavoravano al padiglione della Repubblica Spagnola, nel quale Picasso espose Guernica. In seguito, Bonet seguì le peregrinazioni del suo maestro Le Corbusier, specialmente in America Latina, e proprio in Argentina e Uruguay visse e operò a lungo. Alla fine degli Anni Cinquanta Picasso e Bonet si ritrovano nel sud della Francia e cominciano a pensare al progetto della grande arena che, nelle loro intenzioni, avrebbe dovuto sorgere nella Casa de Campo di Madrid, luogo molto noto, ai tempi, per i maletillas che si offrivano agli impresari di giorno e le ragazze che si offrivano ai passanti di notte.
Occorreva coinvolgere anche un grande matador, possibilmente con buone entrature politiche, perché Franco era ancora pienamente dominante e imperversante.
Nel 1958 Picasso ha quasi ottant’anni. Due anni prima ha terminato il grande murale della sede UNESCO di Parigi, raffigurante il mito di Icaro, opera criticata da molti, ma difesa da Le Corbusier.
Nell’Agosto di quell’anno Dominguín, con il quale Pablo ha già un buon rapporto di amicizia (stanno terminando il libro Toros y Toreros che contiene anche un testo del diestro e che on 19 incisioni dell’artista, uscirà nel 1959), torea ad Arles e viene invitato a Villa California dove, probabilmente, arriva anche Bonet e si pongono quindi le basi concrete del progetto. Dominguín assicura che con le sue relazioni e il suo prestigio non ci saranno problemi sia per le autorizzazioni che per il reperimento fondi.
Architettonicamente, l’idea è di prendere le distanze dall’aspetto neo-mudejar che caratterizza molte arene (vedi Las Ventas), incluse quelle che vengono riformate in quegli anni. I tempi sono maturi: tra il ’56 e il ’58 i lavori hanno interessato la plaza di Alcalà de Henares con una direzione più moderna e attuale, anche se il cammino sarà ancora contraddittorio, per esempio nella costruzione di Bilbao (Vista Alegre) e Burgos e per tutti gli Anni Sessanta.
Il progetto dei tre è invece decisamente moderno, “democratico” e di massa, soprattutto nelle scelte di Bonet, improntate ai canoni del Razionalismo e all’uso della tecnologia, specie per quel che concerne l’impiantistica, i materiali, l’areazione e l’illuminazione.
Il ruedo sarà posto al di sotto del livello stradale circostante, i tendidos, senza differenziazioni, saliranno sino ai palchi, posti un poco più in alto e il tutto sarà protetto da un’immensa cupola rovesciata, senza muri di tamponamento e quindi con libera circolazione dell’aria. La cupola sarà sorretta e tenuta da colossali tiranti che partono dal terreno mentre a Picasso sarà riservata la decorazione con grandi pannelli di ceramica, allora il suo materiale favorito. Pannelli che, oltre a scene neoclassiche, avrebbero dovuto rappresentare momenti della corrida, di vita del toro e ritratti di grandi personaggi del toreo. Era prevista anche la realizzazione di una serie di statue, come in un antico Colosseo.
Esistono i disegni preparatori, firmati dalla triade, ma non se ne fece nulla. Le ragioni del fallimento non sono chiarissime ma è probabile che Franco e i suoi accoliti non gradissero, all’epoca, il via vai tra estero e Madrid di un personaggio come Picasso, molto prevedibile durante i lavori. Lo stesso Pablo aveva sempre dichiarato che non avrebbe più messo piede in Spagna sino a quando il dittatore fosse stato in vita. Avrebbe quindi dovuto rimangiarsi la parola e qualcuno sostiene che la cosa non sarebbe stata gradita dalle opposizioni, in particolare dai comunisti.
L’architetto Bonet doveva trovare, in seguito, un parziale “risarcimento” nella costruzione di un grande stadio per le corse dei cani, i galgos, inaugurato nel ’64 a Barcellona e rimasto in attività sino al 2006.
Quello stesso anno, 2006, Lucia Bosè, in possesso lei stessa dei disegni originali, tentò di rianimare la faccenda proponendo la costruzione dell’arena picassiana nella città natale dell’artista, Malaga, ma il progetto, di nuovo, non riuscì a decollare.
Il grande sogno taurino di Picasso era destinato a rimanere tale e noi ci dobbiamo “accontentare” di ammirare i suoi innumerevoli tori e i suoi inarrivabili Minotauri.