La paura del torero

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Un famoso brano di Juan Belmonte matador di tori, capolavoro di Manuel Chaves Nogales appena pubblicato da Settecolori in edizione sontuosa a novant’anni dalla sua uscita.

Il giorno in cui si torea, la barba cresce di più. È la paura. Semplicemente la paura. Nelle ore che precedono la corrida si prova così tanta paura che tutto l’organismo è mosso da una vibrazione intensissima capace di attivare le funzioni fisiologiche al punto di provocare questa anomalia che non so se i medici potranno accettare ma che tutti i toreri hanno potuto verificare in maniera categorica: nei giorni dei tori la barba cresce più rapidamente.

E la stessa cosa che accade con la barba accade con tutto il resto. L’organismo, stimolato dalla paura, lavora a marce forzate ed è indubbio che si digerisce in minor tempo e si possiede più immaginazione e i reni secernono più acido urico e addirittura i pori della pelle si dilatano e si suda più copiosamente. È la paura. Non si può far altro che lasciarla agire. È la paura. Io la conosco bene. È una mia intima amica.

La mattina del giorno di corrida, quando uno è ancora addormentato, la paura arriva con cautela e, senza far rumore, senza svegliarci, s’infila nel letto accanto a noi. Quando il torero si sveglia è suo prigioniero. La notte prima, mentre ci mettiamo a dormire, già ci gira attorno, ma con un po’ d’immaginazione e di buona volontà, non è difficile metterla in fuga. Io dormo come un santo, la vigilia della corrida, grazie a un espediente semplicissimo: mi metto a pensare cose remote che non importano granché. Siccome non possiedo una straordinaria immaginazione sono arrivato a costruirmi mentalmente una specie di film fantasmagorico, sempre lo stesso, con cui mi distraggo finché non cado addormentato. Si tratta di una divertente successione di immagini che mi intrattengono e mi allontanano dal pensiero ossessivo di ciò che avverrà il giorno seguente. Il grottesco ircocervo1 creato dalla mia immaginazione produce su di me lo stesso effetto che fa la ninnananna ai bambinetti. 

Di mattina, invece, la scappatoia non è così semplice. La paura arriva in punta di piedi prima che uno si svegli e in quello stato di rilassamento, tra il sonno e la veglia, in cui ci sorprende, si impossessa di noi prima che possiamo difenderci dal suo agguato. Quando il torero che quel giorno deve toreare, apre un occhio all’altezza del cuscino e viene colpito dalla luce del mattino che filtra attraverso la fessura della finestra è già un’infelice preda della paura. Il mozzo di spada, incaricato di svegliarlo, lo sa bene. Se è vero che non esiste grand’uomo per il suo valletto, esisterà mai un torero coraggioso agli occhi del suo mozzo di spada?

Ancora raggomitolato tra le lenzuola, con la riversina che lo copre fino alle sopracciglia, il torero comincia il suo drammatico dialogo con la paura. Io, almeno, intavolo con la paura una gran discussione polemica. 

Non so quel che fanno gli altri toreri. Io la paura la vinco o perlomeno la contengo a forza di dialettica. Si tratta di un dialogo incoerente, come quello di un pazzo con un essere sovrannaturale.

«Ehi, ragazzetto» mi dice la paura, appena sono sveglio, con la sua feroce impertinenza «su! Alzati e va’ alla plaza dove un toro ti strapperà le budella».

«Cara mia» replico io sconcertato «non credo proprio che accadrà…»

«Bene bene» ripete la paura «come vuoi. Ma io che sono tua vera amica ti avverto: quel che fai è una follia. È troppo tempo che metti alla prova la fortuna».

«Non tutto è fortuna. Io so toreare».

«A volte i tori inciampano, non lo sai? Che bisogno hai di correre questo rischio insensato?»

«È che ormai ho firmato…»

«Bah! Che importanza hanno le firme? L’unico contratto serio sotto cui mettere la firma è la vita da vivere. Non fare lo stupido. Non andare all’arena».

«Non posso far altro che andare».

«Credi che sprofonderebbe il mondo se non andassi?»

«Non sprofonderebbe il mondo ma farei una figura terribile con la gente…»

«Che t’importa di fare una bella figura o no? Credi che in cinque, dieci anni qualcuno si ricorderà di te e di come ti sei comportato oggi?»

«Sì che se ne ricorderanno… Bisogna vivere con dignità fino alla fine. Lo devo alla mia fama. Fra molti anni gli appassionati di tori si ricorderanno che ci fu un torero molto coraggioso».

«In pochi anni, forse non ci saranno né appassionati di tori né tori. Sei sicuro che la generazioni future terranno in qualche conto il valore dei toreri? Chi ti dice che un giorno non verranno abolite le corride e disdegnata la memoria dei loro eroi? Per essere più precisi, i governi socialisti…»

«Sì, questo è vero. Può capitare che i socialisti, quando governeranno…»

«Certo, amico! Su, immagina che sia già capitato. Non toreare più. Non andare oggi pomeriggio all’arena. Datti malato. Quasi lo sei per davvero!»

«No no, non sono ancora state abolite le corride».

«Ma mica è colpa tua se non lo hanno ancora fatto! E non pagherai certo tu per queste carenze dei governanti».

«Certo» esclama uno finalmente convinto «La colpa è dei socialisti che non hanno abolito le corride come dovevano! Avrebbero già potuto farlo».

Mi rendo conto, a questo punto, che la paura, trionfante, mi sta confondendo e cerco di reagire con energia.

«Bene, bene. Basta con le stupidaggini. Andiamo a toreare. Mi si porti il vestito di luci».

«Ecco! Andiamo a vestirci da torero e a giocarci la pelle per qualche migliaio di pesetas. Che sia maledetta la fregatura che ti danno».

«No. Io toreo perché mi piace».

«Macché ti piace! Tu neppure lo sai cosa ti piace. A te piacerebbe andartene ora in campagna a cacciare o ti piacerebbe metterti in poltrona a leggere tranquillamente o magari ti piacerebbe innamorarti. Ci sono così tante belle donne nel mondo. E stasera potresti rimanere steso nell’arena e le donne continueranno a essere belle e faranno felici altri uomini più assennati di te…»

Quando si arriva a questo punto, uno si siede sul bordo del letto, abbattuto da un profondo sconforto. Il mozzo di spada va da una parte all’altra della stanza silenziosamente, mentre prepara il complicato equipaggiamento del torero. E questi, come un automa, lascia che il suo aiutante lo maneggi come crede. La paura si è fatta padrona del campo per il momento. La pausa è penosissima. Il torero cerca di corrompere la paura.

«Capisco, sì, lo capisco che hai ragione. Questa cosa del toreare è veramente assurda, non posso negarlo. Se vuoi, riconosco addirittura che ho perso il piacere di toreare che avevo prima. Sicuramente non potrò toreare più. Quando avrò rispettato i contratti di questa stagione abbandonerò il mestiere».

«Ma come puoi farti l’illusione di uscire indenne da tutte le corride che ti restano?»

«Bene, non parteciperò che alle due o tre corride indispensabili».

«È che in queste due o tre corride un toro può chiudere i conti con te».

«Basta. Non vado se non alla corrida di stasera».

«È che proprio oggi potrebbe…»

«Basta, ho detto! La corrida di oggi la toreo, anche se dovesse scendere lo Spirito Santo a dirmi che non uscirò vivo dalla plaza».

Quando vede il torero irritato, la paura si ritrae e fa come se se ne stesse andando. Ma resta lì, in un angoletto, in agguato. Uno, soddisfatto del suo momentaneo trionfo, cammina avanti e indietro per la stanza. Poi si mette a canticchiare. Io intono cento canzoncine e non ne finisco nessuna. Nel frattempo, mi dedico alle riflessioni più insensate. Per la cosa meno importante uno si arrabbia con il mozzo di spada e comincia a litigare violentemente. L’irritabilità del torero in questi momenti è intollerabile. Tutto gli serve da pretesto per la collera. Il mozzo di spada cerca di sfuggirgli e lo veste poco a poco. E così un’ora segue l’altra finché, poco prima di uscire per la plaza, cominciano ad arrivare gli amici. Quando sta per entrare il primo, per quanto intimo possa essere, uno sferra un calcione alla paura e la spinge nell’angolo dove non possa essere visibile. 

«Se solo apri bocca, ti strangolo!»

«Vorresti poterlo fare, eh? Potermi strangolare! Su, su, dissimula tutto quel che puoi davanti alla gente, ma non dimenticarti che io qui sto, nascosta nascosta…»

«Mi basta che tu sia discreta e non dia scandalo» le dice uno vedendo se può dominarla con le buone.

Questo diverbio con la paura è inevitabile. Perlomeno io non me lo risparmio mai e credo che non ci sia torero che eviti di provarlo. L’essere o non essere coraggioso nell’arena dipende dal fatto che si sia preliminarmente ridotto all’impotenza questo formidabile contraddittore, questo cattivo nemico che è la paura. Per me è, come ripeto, una questione di dialettica. Altri credo che dominino la paura a forza di pugni, lottando con essa in un corpo a corpo, e altri, infine, preferiscono burlarsene usando sotterfugi. Tuttavia, lì per lì, immediatamente, senza questa laboriosa disputa, chi vince è la paura, e cioè l’istinto di conservazione. Sono convinto di questo: se a tutti i toreri, anche ai più coraggiosi, si presentasse nel momento di sfilare per la parata d’ingresso qualcuno che assicuri loro il denaro necessario per vivere, anche se non fosse più che un duro al giorno ma per tutta la vita, non ci sarebbe nessuno che entrerebbe nell’arena. Perlomeno non ci sarebbero toreri professionisti. Forse ci sarebbero sì toreri occasionali. L’uomo che in un dato momento si gioca la vita per gagliardia non potrebbe mancare. Ma il torero professionista, quello che va alla plaza abitualmente, come il falegname che va tutte le mattine in falegnameria o il pittore che si mette quotidianamente di fronte alla tela, be’ questo non esisterebbe. 

1 Chaves Nogales/Belmonte usa un termine noto agli intellettuali e ai lettori del tempo: esperpento. Nel 1924, con Luces de bohemia, Ramón del Valle-Inclán inaugurò un nuovo genere teatrale chiamato proprio così. L’esperpento costituisce una deformazione grottesca della realtà, una visione tipicamente spagnola, in cui l’uomo, come in uno specchio concavo, assume figura animalesca, deforme e caricaturale.

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