All’inizio è un odore. Lo sprigionano i mobili antichi, i pavimenti di piastrelle colorate, le mura decrepite rimesse a nuovo mille volte, le carte chiuse nei cassetti, i tappeti, gli infissi delle finestre chiuse, le tende che alleviano la luce anche quando non c’è. Si unisce agli odori della strada, quelli di una panetteria che da qualche parte sta lavorando a sfornare cornetti, panini al latte, al burro, pane al formaggio, filoni integrali, biscotti, pizza; quelli del rivenditore di vecchie riviste e biglietti di lotteria e carte telefoniche; quelli del cemento che di giorno è bollente e di notte è gelato e viene spazzato e bagnato e raccoglie comunque tutto l’andirivieni della città; quelli degli uccelli pazzi, colorati, inquieti che si riversano fra alberi dal fusto sghembo e sotto le foglie argentate che si accartocciano come fosse un rudere formando però un ombrello maestoso, l’ombrello della Cecropia Teleniteda. S’intrecciano e si confondono, tutti questi odori, formando un odore unico, compatto, riconoscibilissimo, malinconico e struggente, ma anche vigoroso, esaltante. Lo sento nella notte e mi rendo conto di averlo dimenticato da anni, perché sono passati anni, e questo è l’odore dell’America che amo, quella a sud.
Al mattino, Bogotà pullula di gente operosa fin dalle sei. Per le strade, le automobili si accalcano, s’infilano, avvertono suonando il clacson, proprio come a Napoli “bussano” per annunciare una presenza. L’estensione della città anche solo a osservarla dal Monserrate è impressionante. Sono dieci milioni, sono dodici milioni, sono di più, sono di meno. Ognuno ha una teoria. E ognuno vuole accogliere, spiegare, dare indicazioni. Il primo argomento è la sicurezza, le precauzioni da prendere e la tranquillità che è un obiettivo fondamentale, un’arma di difesa. Il secondo argomento è Petro, il presidente, il primo governo di sinistra, la speranza di molti, il terrore di molti altri. Il terzo è il resto della Colombia, dunque la varietà indicibile, e l’estensione enorme e i clichés con cui fare i conti, dal narcotraffico alla guerriglia, quindi la pace totale sognata dal Presidente e offerta agli elettori come la vera prova del cambio, che è la parola d’ordine.
Non c’è chi non ne parli. Ma farlo con gli amici rischia di essere una prova fallita in partenza. Meglio i mille lavoratori del servizio taxi guidato dalle app che peraltro Petro ha promesso di riorganizzare, tassare, uniformare. Mai prendere un taxi al volo, per strada – questa è la regola imprescindibile. Le app e il tracciamento dei percorsi sono salvifiche. E a bordo di queste automobili di ogni tipo guidate da gente di ogni tipo nessun conducente che si faccia indietro e eviti di dire la sua. Il primo l’ho incontrato fra la Candelaria, con le sue splendide strade coloniali, e Teusaquillo, uno dei primi quartieri residenziali a nord del centro. Era un trentenne entusiasta, ripeteva che Petro è la vera occasione del Paese e che tutto sta davvero finalmente cambiando e che le attese sono altissime. La sindaca che ha preso il posto di Petro invece ha fallito. Ha puntato sulla sua popolarità, ha evitato scelte decise e adesso ha perso credibilità e la capitale difficilmente troverà mai un equilibrio. Il secondo invece mi ha preso davanti a un locale di Chapinero, un po’ più a nord ancora, sempre lungo la cordigliera, le zone che uno straniero frequenta, anche perché a ovest è difficile trovare motivi per andare e anche per rischiare, visto che sono quartieri difficili, secondo molti irrecuperabili. Era ben più smagato il tipo e ripeteva che la pace totale è impossibile. Che la pace non esiste fra gli esseri umani e che figuriamoci in Colombia e figuriamoci se a farsene portatore è un ex guerrigliero, eppoi la pace non ci sarà mai finché esisterà il narcotraffico, inutile farsi illusioni.
E così ho cercato di capire, qua e là, quanto valore abbiano e che posto precisamente occupino, certi proclami di estrema correttezza che, visti con gli occhi di un europeo, appaiono a volte assurdi, senza luogo, come se rappresentassero l’impronta comunque potente del puritanesimo protestante che scende inesorabile dal nord e tutto colpisce e tutto spazza via attraverso gli strumenti che non portano pace totale ma totale informazione o totale disinformazione, dipende dai punti di vista. E qui sono rimasto sorpreso dalle risposte, perché soprattutto la questione ambientalista e animalista non sembra affatto avere la portata che ha da noi, dove ormai l’homo metropolitanus ignora ogni cosa del rapporto fra umano e animale e si è ridotto a sognare un improbabile scambio di diritti reciproci, illuminante nei celebri filmati di Tik Tok in cui ragazzi giocano al gioco delle tre carte con i loro bei cani, tristemente umiliati quando sotto al piattino che non hanno scelto compaiono tonnellate di bocconcini rispetto all’unico che si sono ritrovati a indicare con la loro zampa. No, mi hanno detto, qui soprattutto la battaglia ambientale ha tutt’altro senso rispetto a quello che ha in Europa. In Colombia si tratta di una prova politica a tutto tondo: la biodiversità deve diventare un vanto e può farsi motivo non solo culturale ma anche economico di potenza. E allora io ho domandato da dove venisse tutta questa foga petrista di abolire le corride, tanto per parlare di un argomento che ho particolarmente a cuore. Da sindaco, Petro ha fatto chiudere la plaza de toros di Bogotà, la mitica Santamaria, ricorrendo a scuse di ristrutturazione che hanno comunque fatto il loro corso. Più tardi la corrida è stata vietata nella capitale. E ora che la Corte Costituzionale ha stabilito l’illiceità del divieto, comunque la ferita economica e culturale resta difficilmente rimarginabile. Da presidente, Petro spalleggia ogni iniziativa abolizionista e si ha poco da contestare, sottolineando che la morte di poche centinaia di tori all’anno è davvero insignificante rispetto ai milioni di animali uccisi in un macello, perché la battaglia è simbolica. È una battaglia contro gli assassini. Tanto che un grande matador colombiano, oggi allevatore di tori, come César Rincón, è apparso quasi infantile quando s’indignava: “Hai fatto il guerrigliero per una vita e l’assassino sono io?”
In realtà Petro vuole la pace, la pace totale, oggi. Lavora per questa pace e per la riconciliazione e contro la cultura della morte. Questo è il punto. La battaglia animalista rientra in un paradigma a noi sconosciuto. Ho pensato a questo mentre, come ogni buon turista, mi introducevo nel Museo dell’Oro, una meraviglia assoluta, stanze in cui pezzi che lasciano la bocca aperta sono esposti magnificamente, illuminati alla perfezione e illustrati da veloci e intelligenti didascalie che raccontano le civilità precolombiane. Ho continuato a pensarci per tutto il corso della visita, mentre fuori il sole, che splendeva sulla città come accade raramente, calava dando spazio al freddo della sera. Uomo e animale. Ovunque, in qualsiasi forma le civiltà qui si svilupparono, fu quello il centro della questione. Uomini che dovevano prendere il potere dell’animale. Animali a cui venivano trasmessi poteri umani. Intreccio di forze. E il sole dell’oro che a tutto dà potenza. Il tempo ciclico in cui siamo stati gettati, non un tempo rettilineo fatto di passato presente e futuro. Ma un ciclo che è il ciclo biologico, proprio come era in Grecia. E allora ho pensato al Minotauro. E non ho smesso di confondermi. Cosa sta capitando davvero in Colombia?
(1 – continua)