I tori del rebetiko

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Atene, 1939. Nei cinema arriva una nuova pellicola ispano-tedesca (una combinazione certamente insolita) Carmen la de Triana, con protagonista l’attrice Imperio Argentina, una bruna dal sorriso smagliante, la cui recitazione poteva fare a meno di un trucco vistoso, e il cui sguardo saettava. Il film, sorta di rielaborazione della Carmen di Bizet, mostra una donna gitana libera, indipendente, tentatrice, dai modi spicci e spigolosi, versione femminile di quella istintività ellenica spesso protagonista delle canzoni rebetike. Così, accende la fantasia del compositore smirniota (e per metà italiano) Spiros Peristeris e dell’imprenditore discografico e versificatore Minos Matsas. La canzone principale del film, cantata da Carmen, si intitolava Anonio Vargas Heredia. Il genio greco la trasforma in O Antonis, o varkaris, o seretis ossia Antonis, il barcaiolo, lo scontroso…. I suoni delle parole spagnole ispirano la fantasia ellenica, che inventa una canzone del tutto sconnessa dal film di successo (ciononostante gli autori spagnoli faranno causa – e la perderanno – agli autori greci della canzone), un pastiche che unisce l’ambientazione rebetika classica del Pireo alla tauromachia. 

Antonis è sì un varkaris, un barcaiolo, ma è anche seretis, ossia uno di quei protagonisti del mondo sotterraneo greco che anima la musica rebetika. È l’uomo compresso nella sua malasorte, tiranneggiato dal destino, più spesso chiuso in se stesso, capace di scattare per un nonnulla, e non di rado armato di coltello, pronto a infilzare il malcapitato che ne accenda l’ira perennemente desta. Versione oscura, ctonia, del mangas, altra figura del rebetiko, che non disdegna coltelli e risse, ma ha un suo stile spensierato, furbo, eccentricamente sopra le righe, di uomo che sa vivere e non teme la morte. Così il barcaiolo bisbetico un giorno rinnega il suo mondo, la vita irregolare – rébetis –  rinnega la sua barca, il Pireo, il Pashalimani: “vuole ricchezza e palazzi /e di Carmen i due occhi… Canta e sempre beve / torero vuol diventare”. L’irrequieto barcaiolo non riesce più a trovare un senso nella monotonia dei suoi viaggi per mare, come un Ulisse addomesticato sugli stessi mari dell’avventura e del turbamento, isterilito da orizzonti sempre uguali. Diventerà torero, sfiderà la morte per conquistare la sua donna: “ma il toro senza cuore lo ammazza / e al suolo lo stramazza”. Appena lo vede Carmen in lacrime gli si fa vicino e gli confessa un amore compiuto, autentico: si proclama vedova di Antonis. 

La tauromachia entra nell’immaginario della canzone greca come confronto estremo con la morte, sfida che riscatta l’uomo, che dà un senso al suo esistere nel momento in cui incrocia lo sguardo “senza cuore” del toro. Intrappolato fra le vele della sua barca, Antonis è il modello di una umanità ai margini la cui collera costante, la voglia di menare le mani, è solo espressione della negazione borghese di un eroismo e di una sete d’avventura, di verità, che rode dentro, consuma l’uomo antico, archetipico. E trova il suo sfogo nella ritualità eroica della tauromachia. Pure, la fantasia ellenica non si ferma qui… 

Il successo di O Antonis, o varkaris…, incisa dalla Odeon, con le voci del grande Markos Vamvakaris, accompagnato da Apostolos Hatzichristos, sarà talmente travolgente che le note della canzone verranno riutilizzate l’anno seguente per una divertente satira incentrata su Mussolini. Cantata dallo stesso Vamvakaris Benito mio è dedicata al Mussolini che la notte del 28 ottobre 1940 chiese la resa della Grecia al primo ministro Metaxas. Nei suoi versi, Atene appare in sogno a Benito che, estasiato dalla magnificenza ellenica, decide di inviare il suo ultimatum. Ma al famoso Ochi – il No di Metaxas alla resa – seguirà l’arretramento dell’esercito italiano in Albania, la disfatta. Così la chiusa della canzone: “Eh Benito non scambiar per maccheroni/ degli Elleni i cannoni…”. 

Tornando al 1939, la storia di Antonis prosegue con una canzone che è un vero e proprio controcanto. L’iniziale fortuna di O Antonis, o varkaris genera l’immediata risposta discografica della Columbia. Nasce così Telegramma per Carmen su versi di Vasilis Mavrofridis, nell’ottobre 1939. La vicenda è quella nota, raccontata tuttavia nel suo immaginario capitolo iniziale: Antonis il barcaiolo ha deciso di diventare torero e manda un telegramma a Carmen: “Stasera Carmencita m’imbarco dal Pireo / e vengo a Siviglia a farti compagnia”. Il telegramma si conclude con versi volti a rassicurare Carmen: “E dal toro, stanne certa, non subirò avaria / perché per sei anni ho lavorato in macelleria”. Lo sfottò era rivolto a Markos Vamvakaris, che fino al 1935 aveva svolto la mansione di scuoiatore nei macelli pubblici di Atene e del Pireo. 

Di più, O Antonis, o varkaris si presentava come una canzone dal ritmo hasapiko, antica danza di guerra della corporazione dei macellai di Costantinopoli, nota ai tempi di Bisanzio come makelarikos choròs e sotto la dominazione ottomana come hasapikos dal turco hasap, macellaio.  Per farla breve il famoso sirtaki ballato da Anthony Queen in Zorba. 

Tori, macellai, danze che nella loro forma originaria prevedevano l’uso di mannaie e coltelli, scuoiatori… Riemerge (dall’inconscio ellenico?) la figura del macellaio dell’antichità, macellaio che aveva una funzione rituale essenziale nel rito sacrificale. Come nota Marcel Detienne nel fondamentale La cucina del sacrificio in terra greca: “a partire dal V secolo a.C. le diverse operazioni del sacrificio sono assicurate da un personaggio, il mageiros, il macellaio-cuoco-sacrificatore, il cui nome funzionale esprime la convergenza fra l’uccisione delle vittime, il commercio della carne e la preparazione degli alimenti carnei”. Questi cuochi antichi erano funzionari pubblici, stipendiati da un santuario o dallo Stato, ed erano essenziali per il rituale del sacrificio, che in quel mondo aveva il profondo significato di riconnettere gli individui nella loro dimensione comunitaria. Patto sociale e patto divino erano assicurati dal sacrificio rituale. L’animale ucciso, eviscerato, scuoiato (pelli e viscere andavano sempre ai sacerdoti), fatto a pezzi, cotto e distribuito a sorte fra i cittadini, assicurava l’unità della città, ritualizzava il consumo carneo che è appunto “sacrificio” di un animale. Né “esibizione” di morte fine a se stessa, né sterile industrializzazione del consumo carneo. Al contrario, un tentativo di collocare nell’ordine cosmico la fine di una vita animale per nutrire le energie di una comunità. Il rito come riconciliazione rispetto agli istinti, sublimazione della caccia e della fame, nella dimensione della civiltà, termine che rimanda al civis, alla funzione sociale dell’individuo che non vive, non può vivere come monade. 

Potremmo con questa riflessione chiudere il cerchio delle canzoni rebetike ispirate alla tauromachia. Manca tuttavia la terza, quella definitiva, cantata sempre dal hasapis Markos Vamvakaris. In risposta al provocatorio Telegramma a Carmen, la Odeon registra sempre sul finire del 1939 l’ultima canzone della trilogia: Carmen ad Atene, musicata con grande raffinatezza dal solito Peristeris. Carmen, dopo la tragedia dell’arena, si imbarca per il Pireo. La sua missione: “prendere l’eredità di Antonis il barcaiolo”.  Scende al Pashalimani, per baciare i remi della barca, ma “appena si gira la poverina / vede tutta terrorizzata / Antonis nella barca / che le sue vele tira”. Così Carmen: “Antoniuccio mio barcaiolo / mio valente torero / vivi ancora o mi illudo / ti vedo e mi domando”. E Antonis, con il formidabile aprosdoketon finale, degno della grande commedia aristofanea: “Carmen Carmen non gridare / non spaventarti nel guardare / che morissi era un peccato / e finto morto a terra mi son gettato”.

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