È uscito ieri, sul Foglio, un eccezionale pezzo di Ottavio di Brizzi sulla situazione taurina al tempo della pandemia. Non ne anticipo i temi – culturali, sociali, economici – anche perché sarà presto ripubblicato sulle nostre pagine. Cito soltanto la sua conclusione. Una geniale sorpresa per chi dalla lunga disamina viene spinto al dolore per la sensazione di fine di un mondo (o, nel caso degli antitaurini, a una specie di volgare eccitazione). Di Brizzi, infatti, esperto di Spagna, colto aficionado, ma soprattutto fradicio di passione, chiude il suo reportage accompagnando il lettore a rivivere quel che è accaduto nelle arene di Madrid e Siviglia in questo scorcio finale di temporada (ossia in realtà il cuore della seconda stagione segnata dalla pandemia). Ovviamente a prendersi la scena è Morante de la Puebla. E Di Brizzi scrive così:
“Il sivigliano – barocco, eccessivo a tratti, puro e modernista in altri, per una volta profeta in patria – ha realizzato una faena memorabile, straordinariamente intensa ed emotiva, con veronicas (…) ipnotiche, profonde, lunghissime. Gli spettatori si abbracciavano sui gradoni senza conoscersi, in una cerimonia di abbandono dei sensi, contemplazione mistica, delirio messianico. I giornali e siti taurini hanno gridato al miracolo (…) Forse il sollievo e l’eccitazione più che celebrare una apparizione celebravano un ritorno. E forse la questione è ancora aperta, la tauromachia è tornata, per restare.”
Tornata per restare. Sì, è ciò che abbiamo pensato tutti di fronte al gesto di Morante de la Puebla in questi mesi. Ammaliati dall’artista che ha deciso di sconvolgere le abitudini dei suoi compagni affrontando tori che nessuna figura del toreo osa neppure prendere in considerazione, abbiamo tutti seguito la sua stagione da leader con l’entusiasmo dei ragazzini. Perché non è stata solo questa rottura così straordinaria a colpire chi da decenni ripete che la propensione delle star a sfidare soltanto tori facili ha contribuito in maniera decisiva alla decadenza della tauromachia. Ma sono stati il suo impegno, la sua volontà, il suo abbandono quasi fanciullesco a fare di lui un esempio che non solo i più giovani dovrebbero seguire. Abbiamo tutti pensato che se altre figuras oltre ai giovani che si affacciano per la prima volta sulla scena, prenderanno questa strada, le cose forse potranno andare diversamente. Perché solo quella speranza piena di magia che gli spagnoli chiamano ilusión può fare la differenza.
Ma qual è stata l’idea che ha guidato Morante de la Puebla quest’anno? Perché possiamo parlare di momenti epici come quello vissuto a Jaén proprio in chiusura di stagione quando ha suonato la musica silenziosa del toreo. O possiamo tornare al folle sogno caduto (perché di cadute è fatto il toreo) dell’encerrona con i tori di Prieto de la Cal al Puerto de Santa María. Ma non coglieremmo nel segno. Il fatto è che Morante lo aveva detto fin dall’inizio: per guardare avanti bisogna guardare indietro.
Qualcuno potrebbe aver pensato male di una battuta del genere, soprattutto facendo allusione alle ricadute politiche che in questi anni hanno se possibile peggiorato la condizione del mondo tauromachico. Ma non è questo il caso. La corrida è l’unica arte effimera capace di generare fra chi assiste uno stravolgimento in cui ci si sente tutti uniti da un superiore senso di animalità. Qualcosa che accadeva nel teatro antico, durante il coro delle tragedie greche. Quegli abbracci di cui cioè parla Di Brizzi nelle poche frasi che ho citato.
A marzo del 2020 ero a Olivenza, mentre ancora non si immaginava che di lì a poco la temporada appena aperta avrebbe chiuso i battenti per la pandemia. A inizio ottobre ero a Villamanrique dove si celebrava una corrida epica per il paese manchego. Lasciamo perdere i toreri. Guardiamo il pubblico. A Olivenza una tradizione ormai consolidata fa della feria un evento di straripante vitalità dove le barriere fra chi partecipa semplicemente non esistono. A Villamanrique, invece tutto accadeva per la prima volta. La plaza portatile era zeppa. Il pubblico trionfalista era composto da uomini e donne di ogni tipo, di ogni età, provenienti da tutti i paesi dei dintorni e non solo. La musica suonava festosa quasi senza soluzione di continuità, come accade in situazioni del genere. Nessuno si risparmiava. Panini passavano di mano in mano con le accortezze di questi tempi. E le bibite entravano dal piccolo bar allestito nel campo di calcio dei dintorni. Pareva di essere entrati in un’altra epoca. Ma non un tempo passato. Bensì un tempo sospeso. In cui non sono in vigore le coordinate spazio-temporali a cui siamo abituati; non si tifa; non si litiga. Si aspetta solo l’abbraccio fra tutti quegli uomini che a modo loro si sono confrontati con l’animale dando vita al Minotauro.
È il Minotauro che domina nell’arena. Per il Minotauro di un tempo sospeso Morante de la Puebla ha trovato quest’anno l’ispirazione. Non certo per le vacue ambizioni di successo che prendono molti suoi colleghi e che svuotano irrimediabilmente le arene. La tauromachia è tornata per restare. A patto che al centro ci sia quell’incontro tragico e sconvolgente fra uomo e animale che è il suo vero e unico senso.
Ho avuto la fortuna di trovarmi sulle frequenze di Canal Sur Andalucia proprio durante la radiocronaca della succittata corrida di Morante a Jaen…ed è arrivata immediata la sensazione di assistere ad una “cosa grande”.
Ho avuto la fortuna di trovarmi sulle frequenze di Canal Sur Andalucia proprio durante la radiocronaca della corrida di Morante a Jaen. Anche in uma monotona domenica reggioemiliana è passata subito la sensazione della monumentalità del momento. Tres orejas…piu le due mie.