Il mattino a Cenicientos ha il profumo del caffé che placidamente sobbolle sul fuoco: dalle finestre filtrano ficcanti i raggi di sole, e nelle orecchie saltellano ancora i ritmi invitanti con cui l’orchestra ieri notte ha condotto la festa in paese.
Ci sbrighiamo presto, andiamo a vedere i tori all’arena: apartado e sorteo, i sei Peñajara sfilano sotto i nostri piedi uno per uno. Sono sei mostri, le corna sembrano prese da qualche stampa di tempi antichi: la gente segue il loro passaggio in silenzio, un paio di addetti guidano le operazioni con fare sicuro, in un angolo il mayoral osserva attento e misterioso.
Dei tori ci faremo raccontare: é ora di andare, qualche abbraccio, un arrivederci, siamo in macchina.
Il cielo è azzurro come solo nei disegni dei bambini, il sole è giallo come un limone maturo.
Siamo nella pancia della Spagna.
La strada che esce da Cencientos si snoda tortuosa in un paesaggio brullo e rurale, dietro ad ogni curva ti aspetti di scorgere il profilo rotondo di Sancho a cavallo del suo asino, la vegetazione è rada e misera, la terra ha il colore del pane bruciacchiato.
Su un rettilineo, in mezzo a due filari di olivi, una recinzione che ha l’aria di essere roba seria, e un cartello: animales peligrosos.
Subito fermiamo la macchina sul ciglio della strada, scendiamo. Da un roveto poco dietro il recinto arriva un fruscìo scomposto, una sagoma minacciosa si muove, attendiamo con molta impazienza che esca una fiera selvaggia. Invece spunta uno struzzo. Claudicante si avvicina alla rete, ci osserva, allunga il collo. Cazzo, lo struzzo è un uccello enorme.
Non si sente alcun rumore oltre al meccanico brusio delle campagne in estate, la strada è deserta, il sole ora picchia duro.
Ci siamo noi e lo struzzo.
Pochi anni fa non sapevamo nemmeno che ci fossero i tori, non sapevamo che ci fosse la Spagna, ed oggi proprio per i tori e proprio per la Spagna eccoci qua in mezzo al nulla a guardarci negli occhi con uno struzzo.
Ripartiamo.
La regione è secca, polverosa, inospitale.
L’autoradio è sintonizzata su una stazione locale, avanziamo guidati dalla cartina.
Scorgiamo Chinchón alla fine di un lungo dritto, di quelli che farebbero la felicità dei velocisti. Ecco, tanto la strada per Cenicientos era affare per arrampicatori, impietosa e imprevedibile, tanto i chilometri che portano a Chinchón offrono un percorso dritto e sicuro, rassicurante, di quelli in cui il gruppone si ricompatta e marcia sicuro.
I tori che si combattono nelle rispettive arene sono lo specchio delle strade che li portano a morire.
Il paese ci viene incontro piano, non abbiamo fretta: domina il bianco degli intonaci e tutto sovrasta la chiesa che sta in mezzo, sul gradino più alto.
La chiesa, messa lì, sembra la ciliegina su quei dolci da pasticceria.
Entriamo in paese, sistemiamo la macchina, troviamo l’hostal.
Fa caldo, parecchio caldo, e per un fortunato intervento del destino la piscina comunale è a due passi dall’albergo. Ci incamminiamo e dopo pochi passi incappiamo in un baretto all’angolo della strada, e ci viene in mente che ancora non abbiamo mangiato nulla. Nel locale stanno due persone che sorseggiano tranquille le loro birrette, la televisione sta appollaiata là in alto e rimanda immagini confuse, ma tanto non se la fila nessuno. Ai muri sono appesi quadri improbabili e locandine stinte, avvisi vergati a mano tipo vendo Panda usata, fotografie di cresime e matrimoni, cartoline di spiagge e mari. Nella vetrinetta sonnecchiano vassoi di olive e acciughe, fette di tortillas e qualcos’altro ancora, ai piedi del bancone si ammassano noccioli e tovaglioli, gusci, scarti, cicchi.
E’ la Spagna in via di estinzione.
Il bagno in piscina ci voleva, il sole ci scalda e abbronza, il pomeriggio passa presto: è ora di andare. Gli aficionados hanno una sorta di orologio biologico che segna inesorabilmente il tempo, che scatta automaticamente quando sa che i tori si avvicinano, che guida la volontà e le azioni con ordini secchi e precisi. Ha suonato la sveglia.
Alla piazza di Chinchón si arriva percorrendo stradine che dalla cima del paese scendono ripide, stradine strette e silenziose, le case immacolate sui lati, profumo di aglio che esce dalle cucine.
In fondo alla via sta una sorta di portone, semichiuso, che inibisce il passaggio: due signori rubicondi strappano biglietti e incassano il corrispettivo in euro, là dietro tra poco si darà una novigliada.
Facciamo il nostro dovere e superiamo l’ingresso, e il colpo d’occhio toglie il fiato: con le debite proporzioni, Chinchón è la Siena della tauromachia.
La sua piazza è di una bellezza esplosiva e struggente.
La chiesa troneggia dall’alto della collinetta, lo spazio è un tondo imperfetto, le case a due piani hanno balconate di legno verde e ostentano drappi giallorossi: la sabbia che copre il selciato accoglierà presto zoccoli e zapatillas, un giro d’assi attorno delimita la pista, lungo il perimetro alcuni ordini di gradinate. E’ la piazza del paese, che è l’arena del paese.
L’atmosfera è insieme elettrica e sognante. Uomini e donne e ragazzi e bambini passeggiano in quel corridoio ombreggiato che sta tra il retro delle gradinate e le case che danno sulla piazza, in quel cammino puntellato da botteghe e bar e ristoranti che fa da percorso tentatore e obbligato. Scegliamo un tavolino, ordiniamo birra e manchego, è tutto perfetto.
La novillada alle otto di sera è lo zenith della festa. Introduce l’alguacil, un personaggio in evidente stato di obesità e a cavallo tra l’età dei giochi e la pubertà più complicata: compie la funzione con fare goffo e lezioso, la madre lo ammira da dietro la barriera, lo immortala in mille fotografie, lo chiama con gridolini nervosi.
Sfilano i due novilleros e le rispettive squadre, entrano man mano i quattro tori.
Il sole incendia le assi dipinte con i tori più maturi del giallo e del rosso e che ora brillano luminose, dai balconi si affacciano signore non più giovani, sulle gradinate le famiglie coi bambini si mischiano ai ragazzotti eccitati e alle signore impomatate. Tutti bevono, sgranocchiano, ridono e gridano. Una mezza veronica scatena l’entusiasmo del signore davanti a noi, la camicia contiene a fatica l’esuberanza e la passione per il cibo, il volto è paonazzo, si produce in un olé gorgogliato e lussurioso.
Tutto si mischia e si confonde e si trasforma, la tragedia dei tori e l’euforia della festa, gli sguardi ammiccanti e il silenzio concentrato di qualche vecchio aficionado, l’odore del sigaro e il profumo dei canditi.
Là in alto, austera e immobile, la chiesa.
Finisce la corsa, arriva la sera. La piazza di Chinchón è centro pulsante della vita del paese, qui si sfidano i tori, qui si beve e si mangia, qui si va ai concerti e si fa la spesa, qui si è a casa.
Scegliamo una taverna per un paio di bicchieri, li beviamo in silenzio godendo ancora della magia di quel luogo fuori dal tempo. E’ il nostro turno per fare un pò di struscio, camminando piano osserviamo un paio di ragazzini che giocano al torero in mezzo alla piazza, una signora di fianco a noi ancora sminuzza e mastica semi di girasole.
Individuiamo un’osteria che sta sull’angolo dell’arena, dal tavolino che occupiamo vediamo uno scorcio di piazza, i palazzi già all’ombra, il rosone e la facciata severa della chiesa.
Arriva il vino bianco, è fresco nella caraffa e scende bene: rende lievi i pensieri, si offre di tenerci compagnia per la serata, ne vogliamo ancora e insieme arrivano migas e calamari, prosciutto e pesciolini.
Accanto a noi una coppia di fidanzatini consuma una cena imbarazzata, forse è il primo appuntamento e lui francamente non sembra stia andando benissimo.
Beviamo e mangiamo, e ridiamo e chiacchieriamo, è la sera della festa e non chiediamo altro.
Poi i lampioni della piazza si spengono e succede qualcosa che stravolge tutto.
Dalla via che sta sopra alla fontana, una di quelle vie che partono a raggiera e portano fuori dalla piazza, arrivano prima le eco di qualche voce, poi una melodia più nitida, e infine le luci fioche di qualche centinaio di candele: entra la processione, in testa il parroco e il sindaco, dietro a loro mezzo paese. Donne col velo, ragazze in abito da sera, bambini vestiti da marinaretto. Uomini e ragazzi portano la statua della madonna vergine, è sommersa da un tripudio di merletti, ricami, lucine, rose, medagliette, oro, pietre. Nei bar ora la gente tace e ascolta la nenia cantilenante che il prete intona nel megafono, e con quella il coro di risposta che arriva dal serpentone. La madonna conquista il centro della piazza, vengono recitate le formule di rito, gli uomini e le donne si sistemano lungo il perimetro delle assi e hanno espressioni severe e i pensieri a qualcosa di lontano.
Nella stessa piazza dove poche ore prima sono stati uccisi quattro giovani tori, su quella stessa sabbia che ancora è chiazzata dal rosso del loro sangue ora sta una vergine e attorno a lei cento fedeli che la pregano, stanno cento candele e cento rose, in quella piazza dove fino a un minuto fa un paese intero celebrava la vita ora un intero paese si raccoglie in pagana preghiera.
In qualsiasi altro posto del mondo il cortocircuito sarebbe stato inevitabile e rumoroso, ma qui no: a Chinchón, nella Spagna autentica e profonda, tutto questo è semplicemente vero, essenziale e normale.
Poi a un cenno del pastore gli uomini si riprendono in spalla la madonna, le donne si accodano ordinate, la processione riprende a muoversi e i lampioni tornano a illuminare la festa.
I bicchieri riprendono a svuotarsi, le posate di nuovo tintinnano, i camerieri servono piatti e caraffe.
E’ qui che il Pana incontrò la Pantoja.
Siamo come incollati alle nostre sedie, sul tavolino è un valzer di piatti e pietanze e il vino bianco di nuovo non basta, ne chiediamo ancora. Ci vengono in mente i novillos di oggi, quel batacazo impensato, i fiori gettati ai toreri.
Da sopra al castello vediamo sparare i fuochi d’artificio: illuminano il cielo di mezzanotte, disegnano arabeschi contro il nero dell’infinito, si accavallano tra geometrie e colori impazziti.
Rimaniamo ancora, poi viene l’ora.
E’ tardi, il vino ci ha rinfrescato e rincuorato, e poi ci ha sedotti e conquistati: ora, ci invita al sonno.
L’aria adesso è fresca, nella piazza ancora gli adolescenti si sbirciano e si rincorrono, si attraggono e respingono; i camerieri sono sulla soglia dei locali, fumano e chiacchierano piano.
Ci sono le stelle.
Risaliamo verso l’albergo, una giovane coppia si paciuga nel buio di un androne, una signora sbuffa l’erta maledicendo l’età.
In alto, ci giriamo un’ultima volta verso la piazza.
Ancora, è illuminata.
Ferragosto a Chinchón.
* * * * *
Chinchón, 15 agosto 2011. Quattro novillos de El Boyeril, di presentazione debole anche considerata la categoria dell’arena, privi di forza e di scarso interesse nei tre atti ad eccezione del quarto, con qualche elemento di poder e casta. Fernando Adrian: applausi, 2 orecchie; Juan Miguel: orecchia, fischi.