Francisco Goya fu un pioniere del movimento antitaurino.
Così si racconta nelle audioguide che accompagnano i visitatori della grande esposizione appena inaugurata al Prado per celebrare i suoi duecento anni di vita: Solo la voluntad me sobra.
A volte, è difficile anche commentarle certe notizie.
Segnalo un accurato articolo uscito ieri su El Mundo in cui si ripercorre la passione che guidò Goya innanzitutto alla famosa serie di incisioni – La Tauromaquia – e in generale alla produzione di dipinti, disegni, litografie e stampe di argomento taurino. L’autrice non si ferma a questo. Cita lettere e momenti della vita dell’artista e racconta ancora una volta, per chi non ne fosse al corrente, della morte nell’arena di Pepe-Hillo che tanto impressionò il suo amico Goya al punto da spingerlo a lavorare sulla celebre incisione conclusiva della serie dopo aver immaginato tre soluzioni distinte.
Gli esperti potranno dissipare i dubbi, ma qui è in gioco altro.
Come è possibile che si sia arrivati a tanto? Come è possibile che un tale livello di revisionismo riesca a prendere posizione addirittura nelle presentazioni e nelle audioguide di un’istituzione come il Prado?
Sappiamo benissimo, infatti, che non servirà a nulla il coro di esperti che smentiscono, smontano e ragionano. Fra gli innumerevoli visitatori saranno moltissimi coloro i quali se ne torneranno a casa con una certezza: Goya era antitaurino.
Come poteva infatti raccontare il toro in tanta maestà se fosse stato dalla parte dell’uomo?
Ecco la prima barbarie intellettuale di fronte a cui francamente cascano le braccia.
Chiunque vada ai tori (perché così si dice – bisogna ricordarsene – “ai tori”) cerca l’animale sacro, l’animale maestoso, l’animalità somma. E semmai fischia la decadenza attuale in cui tori sempre meno imponenti e arcaici trotterellano nelle plazas di Spagna. Chiunque va ai tori non va a parteggiare per l’animale o per l’uomo. Non va a fare il tifo. Non va a godere della morte dell’uno o dell’altro (come capita ai tanti animalisti antiumanisti così pronti a godere e festeggiare ferite e morti dei toreri). Si va ai tori per partecipare a un rito, una cerimonia in cui uomo e animale s’incontrano, si uniscono e l’uno deve dare la morte all’altro rischiando a sua volta di morire in prima persona.
Ma – dicono i glorificatori della correttezza politica –
possibile che Goya abbia ritratto scene tanto tenebrose e fosche? Anziché
raccontare quella che gli spagnoli hanno sempre chiamato fiesta?
E qui ecco l’altra barbarie davvero inspiegabile quando a
parlare dovrebbero essere esperti di Goya. Come dovremmo commentare infatti l’opera
dell’immenso artista di Fuendetodos? Perché per esempio dipinse le famose pinturas negras?
Ci sono poche parole che viene voglia di usare di fronte a questa ennesima
prova della deriva di ignoranza e vuoto cui conduce la correttezza politica.
Forse l’unica cosa da ricordare a chi si è lanciato in questa revisione culturalmente omicida è che quando Goya visse non si poteva immaginare neppure lontanamente che un giorno il Vecchio Continente – sempre più vecchio e sempre più opulento, sempre più dominato dalle lontane Americhe e da quel puritanesimo protestante che sta diventando un incubo di formale correttezza che infetta ogni livello di riflessione – sarebbe arrivato a considerare scontata e assai poco rilevante la morte in mare di centinaia di esseri umani, sarebbe arrivato a condannare chi cerca di salvare quelle vite e al tempo stesso avrebbe coltivato la frenesia di un devastante antispecismo davvero antiumanista per cui, mentre dietro l’angolo muoiono esseri umani, ci si danna ogni giorno per operare tartarughe marine imbrigliate in una rete, si salvano topi di fogna incastrati nei tombini e si portano in giro cagnolini che non toccano mai terra in pasticcerie per cani a offrir loro gelatini colorati pur di dimenticare il male che è dentro noi stessi da sempre. Proprio quel male che Goya genialmente ritrasse e che essi reprimono tanto da non riconoscerlo più neppure in opere d’arte immortali come Saturno che divora i suoi figli.
Emblematico articolo di uno scrittore sensibile al sapore arcaico di quella sublime arte che Goya rappresenta in tutta la sua pienezza.
Da persona che ha potuto visitare Fuendetodos, la casa natale di Goya e vedere con i suoi occhi il museo che raccoglie i celeberrimi grabados, trovo sconcertante un simile revisionismo da parte dei suoi stessi connazionali e soprattutto da parte di istituzioni che dovrebbero tutelare la cultura di un paese ed essere un baluardo di imparzialità. Tauromachia e antitaurini a parte, credo che la riflessione finale centri il problema di fondo: stiamo diventando una società sempre più insensibile verso i propri simili, che fa crociate per i cagnettini e preferisce voltarsi dall’altra parte quando si tratta delle persone.