BLANCANIEVES, di Pablo Berger; con Maribel Verdù, Daniel Gimenèz Cacho, Angela Molina, Pere Ponce, Macarena Garcia (Spagna, Francia, Belgio2012). Produttore Pablo Berger, Ibòn Cormenanza, Jèrome Vidal; casa di produzione Arcadia Motion Pictures; distributore per l’Italia: Movies Inspired; fotografia: Kiko de la Rica; montaggio: Fernando Franco; musiche: Alfonso Villalonga; scenografie: Alain Bainée; costumi: Paco Delgado, Sonia Capilla
Per chiunque ami il cinema e intendo dire nel senso più completo, non come semplice contenitore narrativo quindi ma come forma espressiva dotata di linguaggio autonomo; per chi ne ami la sua storia, la sua primigenia natura meccanica, per chi ancora riesce a subire l’incanto dell’imperfezione, Blancanieves difficilmente può non essere accolto con gioia: ma per chi, oltre al cinema, ha la fortuna di amare i tori, ecco che il film di Pablo Berger appare come uno splendido regalo su grande schermo.
Il miracolo di Blancanieves è soprattutto questo, riuscire a coniugare perfettamente quello che il cinema è diventato negli ultimi cent’anni: un perfetto meccanismo, sempre uguale, in cui è la sceneggiatura intesa come scienza esatta a determinare in gran parte il successo di un prodotto filmico, con quello che avrebbe potuto essere, ossia quella splendida fabbrica di visioni fatta di ritmo, montaggio, materia, che le avanguardie storiche auspicavano.
Quello che Berger confeziona è un atto d’amore totale verso le origini della settima arte, il film è muto (ma ho sempre preferito il termine silent), nelle presentazioni in patria è stato proiettato con commento musicale eseguito dal vivo così come in uso negli anni ’20 per le grandi produzioni e solo nei cinematografi più eleganti d’Europa e Stati Uniti; le didascalie, pur presenti, mai sostituiscono le immagini nell’economia del racconto, sono piuttosto l’ennesimo recupero iconografico, la didascalia in questo senso è essa stessa immagine e intercalare ritmico.
Il formato utilizzato è uno Standard Academy: formato unico fino al 1953, è quanto di più simile si possa impiegare a quello in uso negli anni ’20, considerando l’esigenza di ospitare una pista sonora; per intenderci è un rapporto di proiezione tra base e altezza dello schermo di 1,37:1; oggi ricompare raramente, negli ultimi anni è stato usato da Hou Hsiao-Hsien per Assassin (Taiwan 2015) e da Stéphane Brizé per “Une vie” (Francia 2017), entrambi lavori raffinatissimi in cui tale scelta è giustificata da ricercate composizioni spaziali, vuoi per esaltare le linee verticali (Assassin), vuoi per creare spazi claustrofobici entro cui far agire i protagonisti (Une vie). Nel caso di Blancanieves è semplicemente una scelta obbligata, è in quello spazio che i Lumière ci regalarono la macchina del tempo, è lì che Pablo Berger torna a far rivivere luci e ombre del cinematografo. Oggi che anche il Tg4 è in 16:9, l’apparizione del “piccolo” Standard Academy, per paradosso, giganteggia. Il film è girato in pellicola 35mm, nel caso aveste il privilegio di assistere a una proiezione in tale supporto godetevela e tenetevi lontani il più a lungo possibile dall’acquario digitale contemporaneo.
Il soggetto è noto ma i fratelli Grimm ricollocati a Siviglia, da soli, a Berger non bastano. Il canovaccio viene stravolto, in fondo è altro quello che il regista basco deve tenere insieme: la più incredibile e spettacolare esplosione visiva vista da molto tempo a questa parte. Eleganza formale, ellissi, montaggio alternato, chiusure a iride, sovrapposizioni e dissolvenze incrociate, richiami gotici, espressionismo, surrealismo, avanguardie, Von Stroheim, Jean Vigo, Buster Keaton (sì, anche Keaton, evocato in quei numeri falsificati nel toril), Dreyer e Browning e poi circo, toreo comico, Freaks, fiaba e flamenco.
Berger per un’ora e mezza gioca con tutto l’arsenale cinefilo a disposizione, nel dirigere gli attori utilizza un registro lontanissimo dall’idea che spesso erroneamente si ha di quel periodo, l’ironia pervade ogni gesto, ogni volto, anche durante le sequenze più cupe. Si gioca visivamente con il passato senza mai compiere un esercizio di ricalco, i mezzi tecnici a disposizione sono quelli di oggi, dolly e carrelli vengono impiegati a piene mani, la cura degli elementi sonori, musica in testa, è prodigiosa: e a noi spettatori, non passivi ma richiamati all’attenzione a ogni inquadratura, non resta che soccombere, storditi da questo turbinìo di bellezza, in un bianco e nero fulminante e carico, che ci riempie gli occhi e il cuore.
In Spagna il capolavoro del regista basco ha ottenuto 18 nomination per l’edizione 2013 del Premio Goya, massimo riconoscimento cinematografico spagnolo, aggiudicandosi 10 premi. L’Oscar l’ha vinto The Artist, ve lo ricorderete, c’era un cagnolino e una dose di furbizia oltre il lecito.
In Italia il film venne presentato nella serata di apertura della 32ma edizione delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, gli animalisti non persero l’occasione per organizzare un presidio davanti al Teatro Verdi, inviarono mail di protesta con specifica richiesta agli organizzatori del festival di escludere Blancanieves dalla rassegna. Ho partecipato a diverse edizioni delle Giornate del Cinema Muto: quasi del tutto assenti i critici, è luogo d’elezione di storici, restauratori, attribuzionisti, filologi che qui convergono da tutto il mondo. Ho conosciuto individui capaci di setacciare passo passo la Monument Valley alla ricerca di un preciso punto macchina di un western dimenticato di William Wyler, altri pronti a contare i singoli fotogrammi di una singola inquadratura di un semisconosciuto Slim Summerville al fine di poter comparare l’integrità di una o più copie in nitrato ormai inservibili, altri ancora che farebbero fatica ad associare un’accusa di razzismo al lavoro di D.W. Griffith ma che al contempo sarebbero in grado di elencare le dinamiche di ogni movimento di macchina presente nell’opera dello stesso. In sintesi, la presenza degli animalisti in tale contesto può dirsi appropriata quanto quella di un club alpino ai tropici.
Mi rendo conto di aver parlato poco o nulla di tori, questo mi obbliga a una dolorosa confessione: ho visto 100 corride negli ultimi 15 anni, dalla Camargue, lungo la Spagna, fino alle touradas delle Azzorre passando per Campo Pequeno, non ci ho mai capito niente.