Lo scorso 28 settembre il cielo di Madrid si è aperto per accogliere per l’ultima volta Enrique Ponce, Maestro de Maestros. Madrid, la città che lo accolse per la prima volta quando era ancora un giovane novillero, ha assistito al suo addio dopo 34 anni di carriera e di dedizione all’arte tauromachica, aprendo per lui la Puerta Grande di Las Ventas per la quinta volta. Non è stata solo una corrida, ma l’epilogo di un’opera d’arte vivente. Sì, perché Ponce è stato il torero de arte per antonomasia, il matador che più di ogni altro ha improntato la sua visione del toreo sulla ricerca del gesto estetico assoluto. Sulla bellezza che si concretizza, per un attimo, in un lance de capote o un pase de muleta.
Ho un forte legame emotivo con Ponce. Quando cominciai a studiare l’arte del toreo lui era una delle grandi figuras e osservandolo cominciai ad apprendere il senso di questo assurdo rito in cui un uomo crea arte attraverso il confronto con un animale. Non ero a Madrid sabato scorso ma il 7 settembre, nell’arena di Arles, ho avuto il privilegio di assistere alla despedida di Ponce dall’afición francese, e ho versato lacrime mentre, sulla musica di Mission, quella più amata dal Maestro, ha eseguito un paio di pases de muleta da lui inventati, le poncinas.
Sotto il cielo grigio di Madrid Ponce, con il suo caratteristico traje de luces color lilla e oro, non ha semplicemente toreato due tori, ma ha sfidato la storia stessa della tauromachia, la sua storia.
Enrique Ponce non è stato solo un torero; è stato un poeta dell’arena, un filosofo, un catedrático de la tauromaquia, come lo hanno definito, un intellettuale che ha, in tutta la sua carriera, difeso con argomentazioni culturalmente dotte e stringenti le ragioni del toreo contro tutti gli attacchi che ad esso venivano rivolti. Nel corso di oltre tre decenni il suo stile raffinato e preciso ha affascinato generazioni di aficionados. Ogni corrida è stata una tela bianca per lui, in cui ogni passaggio con la muleta, ogni stoccata avevano l’obiettivo di rimanere impressi nella storia non solo della tauromachia, ma anche dell’arte. In questo sabato madrileno, con due orejas in mano e la Puerta Grande aperta, è sembrato che l’intera arena si sia inchinata davanti a lui, in un ultimo tributo all’uomo che tante volte ha danzato con la vita e la morte sotto gli olé di una folla in delirio.
Madrid, che lo ha visto trionfare e soffrire, lo ha salutato con l’entusiasmo riservato ai grandi del toreo. Come un’eco, l’ultima frase che il Maestro di Chiva ha pronunciato risuonerà per sempre nei tendidos di Las Ventas: “Da Madrid al cielo. Grazie per tutto, addio per sempre”.
E così l’unica certezza è che la leggenda di Enrique Ponce continuerà a riecheggiare in ogni tarde de toros, in ogni plaza in cui l’arte del toreo vivrà ancora.
La cronaca ci dice che le due orecchie che hanno aperto per Enrique la Puerta Grande di Las Ventas sono state tagliate a un toro di Juan Pedro Domecq, la ganaderia prediletta da Ponce, e che nell’arena, accanto a lui, altri due toreri hanno cercato di scrivere la loro storia: Samuel Navalón e David Galván. Ma questa tarde non era per loro. Come scrisse García Lorca, la corrida non è una semplice battaglia, ma un “mistero incomprensibile dove la vita e la morte si mescolano in un istante”. Ponce, nel giorno della sua despedida dal tempio del toreo, è stato quel mistero fatto carne.