S’intitola A un aficionado. È uno dei racconti che compongono il libro di Antonio Franchini: Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani (NN editore, pp. 255, euro 17). E riesce a illuminare meglio di molti altri tentativi letterari il mondo folle in cui le passioni di noi malati di tori bruciano. Come spesso capita, è chi una dimensione la osserva da fuori che sa restituirne più chiaramente il senso. Purtroppo per la dimensione tauromachica non capita di frequente. Chi si accosta a questo mondo di enorme complessità generalmente ne viene risucchiato oppure se ne tiene alla larga sdegnoso. Rarissime le mezze misure. Soggiogati dal disprezzo morale che la correttezza dell’animalismo antiumanista ha riservato ormai senza appello agli appassionati di tori, gli inesperti di corrida generalmente si affrettano a condannarla. Coloro invece che si aprono alle sue ricchissime complessità spesso si lasciano portar via dal virus della passione. Questo è un caso eccezionale, dunque. Antonio Franchini, infatti, ha il merito di essere un inesperto privo di pregiudizi, uno che si è avvicinato alla tauromachia per via di altre sue più profonde passioni (le varie forme di combattimento fra uomini), ha letto qualcosa, si è informato, ha visto corride in tv, e ha conosciuto l’amore negli occhi degli altri, e principalmente di un grande aficionado italiano. Per questo, il suo racconto è una piccola perla di quelle che ogni anno mettiamo da parte, nella grande biblioteca taurina che non smette di crescere, a dispetto dei tempi, a dispetto della più atroce delle crisi, quella che ha colpito i tori anche più di altri settori della cultura per via della pandemia mondiale che stiamo attraversando.
S’intitola A un aficionado, ma l’aficionado, prima di leggere il racconto, avrà aperto il volume e sarà stato colpito dall’immagine che troneggia sotto il risvolto di copertina in apertura e chiusura del volume. È la fotografia che correda questo articolo, un celebre scatto che – come scrive Franchini nel suo racconto – ritrae la “testa di Ignacio Sánchez Mejías chinata sul volto del cadavere di Joselito a interrogare, nei tratti raggelati e sereni di quel grande torero che era suo cognato, il segreto della stessa morte che avrebbe colto anche lui nell’arena quattordici anni più tardi, quella fotografia di un uomo riflesso ad accarezzare la morte di un amico e la propria, non la eguaglierà mai nessuna pagina di poesia e nessun San Girolamo di nessun Caravaggio; no, non c’è arte umana che possa pareggiare quello scatto. Ogni santo meditabondo su teschi e ossa, ogni verso lirico o concettoso appare di uno sforzato, superficiale manierismo a fronte del volto disteso di quel defunto e dei tratti corrucciati di quel vivo tanto naturali e belli da sembrare in posa, una posa che dimostra come la morte sia un fatto che avvilisce soltanto i vivi”. L’aficionado, allora, sollevando la copertina del libro, eppoi leggendo queste parole, avrà già capito perché Franchini si sia aperto al mondo dominato dalla sfida cerimoniale fra uomo e toro, fra due animali che devono morire dunque, fra l’animale che sulla morte riflette e l’animale che sulla morte non può riflettere eppure cerca di allontanarla e di somministrarla con tutte le sue immani forze. Tuttavia, il racconto di Franchini non cerca il senso della corrida, ma della passione verso la corrida. E come accade nel caso dei narratori puri lo fa senza dire nulla, ma mostrando luci e ombre attraverso una storia personale che si fa letteratura.
È la storia del giorno in cui fu contattato da un canale televisivo per commentare una corrida (chissà di che anni si sta parlando. Una cosa del genere oggi sarebbe inconcepibile) e poiché lui si schernì dicendo di saperne assai poco, gli chiesero di affiancare un esperto e questo esperto era Ermanno Doris. Con levità, senza dare mai nell’occhio, Franchini ci avvicina ai misteri di quest’uomo e chiunque leggerà il racconto potrà seguire la strada che crede. Quanto al mondo degli aficionados, il piacere è grande. Franchini tocca le corde giuste e lo fa partendo da quella che tutti conosciamo come la situazione tipica dei nostri incontri: l’amicizia, lo scambio di informazioni, le novità da raccontare e sviscerare rigorosamente di fronte a una tavola imbandita, se possibile come si fa in Spagna: “tocchi di jamón serrano, fette di chorizo e di tortillas de patatas, acciughe arrotolate, gamberi sgusciati e birra fredda. Era stato in Spagna centinaia di volte e gli ci voleva niente per ricreare una porzione della sua terra amata, come quei modellisti che si tengono vicine le loro passioni in scala”. Le chiacchiere portano sempre allo stesso punto: la morte e come darla o come riceverla. Ma per arrivarci le strade sono infinite. Il giudizio su un torero, il ricordo di un certo passaggio nell’arena, un aneddoto di passione condivisa, litigi e prese in giro e infine qualche sogno, come quello che in molti abbiamo sognato: aprire un allevamento di tori da combattimento in Italia.
Ma se gli aficionados sono famosi per la loro capacità di trovarsi, raccontarsi, condividere la tavola e ogni idea sulla vita e la morte, sono altrettanto famosi per dividersi. Se niente è più inadeguato del tifo sportivo per capire il tipo di partecipazione dell’aficionado, per spiegarsi forse non c’è altro che questo fatto evidente a tutti: ciascuno di noi è pronto a discutere e cambiare opinione, ma proprio per questo, quando cambiare opinione non si può più, la divisione si fa irreparabile. E allora accade ciò a cui tutti abbiamo assistito negli anni. “Gli esseri umani pensano assai di più per dividersi che per essere concordi, ma più della politica, più del calcio, più dell’arte, più di qualsiasi cosa, verificai che la corrida ha prodotto sterminate divergenze, un ribollire di opinioni ferocemente opposte, al punto che appassionarsi per contrapporsi mi sembrò l’essenza dell’afición, e più famoso era un matador, più furiosi i suoi detrattori”. Per questo probabilmente “l’associazione taurina di cui era presidente aveva chiuso i battenti qualche anno prima viste le irriducibili differenze ideologiche fra i meno di dieci soci”. Ma a Franchini interessa Hemingway. Così le differenze di vedute che a lui importa sottolineare sono quelle fra l’americano di Un’estate pericolosa con tutta la tragedia che incombe sulla sua scrittura e la sua stessa vita, e un francese di nome Jean Cau.
Storie che conosciamo e che non smetteremo mai di riascoltare. Ma che non avrebbero senso se Franchini non ce le raccontasse virando sempre verso la passione totale che affligge l’aficionado. Quale sia il senso di quella passione è la perla del racconto, una perla non detta, come era uso di Hemingway, ma mostrata attraverso la punta di un iceberg che per sette ottavi affonda sotto alla superficie del mare. Ciò che colpirà il lettore allora sarà l’atteggiamento di Doris negli anni seguenti, un atteggiamento mai spiegato, ma che ha a che fare con la vita e con la morte e con la vitalità inestinguibile che brucia nelle passioni taurine. Per questo A un aficionado svela infine il suo titolo attraverso l’aneddoto apparentemente laterale con cui si conclude. La dedica vergata dalla mano di José María de Cossío, sapientissimo autore della più necessaria e incomparabile enciclopedia taurina. Poche parole che “o erano un raro autografo o, assai più probabilmente, una dedica fotografata chissà quando e poi, per la sua emblematicità, riprodotta su ogni copia. La lessi e da allora la porto impressa dentro di me: A un aficionado, que Diós te conserve esta ilusión”.