Esce in questi giorni il nuovo libro di Giuliano Malatesta, A Pamplona con Hemingway. L’estate che sembrava non finire mai. Una ricognizione nella Spagna del grande scrittore. Così comincia il libro.
Una volta terminato l’encierro la mattinata era libera. Nessuno era in grado di resistere tutto il giorno in quell’asfissiante frastuono cittadino che era la feria di San Fermín. Neanche la cuadrilla di Hemingway. Qualcuno del gruppo fuggiva verso i Pirenei, in cerca di un po’ di tranquillità e di un torrente dove pescare, in memoria dei memorabili anni Venti. Altri ne approfittavano per riprendersi dai bagordi notturni, e non sempre dodici ore erano sufficienti, mentre i più temerari si lanciavano in fugaci blitz diurni lungo la costa basca, favoleggiando evanescenti amori.
Qualunque fosse il programma della giornata l’appuntamento imprescindibile per tutti era stabilito alla ocho de la tarde, al termine della corrida pomeridiana, sulla terrazza del Bar Choko (ora ribattezzato Txoko), in plaza del Castillo, il salotto buono dei pamplonesi, quando Papa si trasferiva nel suo ufficio all’aperto per sorseggiare un milkshake alla vaniglia molto corretto con il cognac e organizzare la serata. O semplicemente per starsene lì, al centro della scena, uno dei suoi passatempi prediletti e a cui sempre più di rado riusciva a rinunciare.
Detestava quando l’attenzione si dirigeva verso qualcun altro. Dicono che con il passare degli anni fosse diventato più apprensivo, come un torero prima di entrare nell’arena. Era carismatico, consapevole di esserlo, e adorava essere circondato dalle generazioni più giovani. E non importa se le storie che raccontava, che potevano riguardare l’intero scibile umano, danzavano in perenne movimento lungo quella sottile e invisibile linea di demarcazione che separa la finzione dalla realtà. Era parte della sua mistica e bisognava accettarla.
“Diceva che la finzione è un ingrandimento della realtà – ha scritto l’editore e amico A. E. Hotchner nel libro Papa Hemingway. A personal memoir – e quando raccontava una storia era difficile sapere se fosse fantasia intrecciata a realtà, realtà condita con finzione o pura fantasia”. Aveva davvero gettato un leone fuori dall’Harrys bar di Parigi, come amava raccontare? O scopato, “very well”, con Mata Hari, leggendaria danzatrice e spia al soldo dei tedeschi fucilata nel 1917, anche se le date non combaciavano? Poco importava. Nel 1959 la sua notorietà a Pamplona, complice la vittoria del Nobel di qualche anno prima, aveva raggiunto il suo apice.
Tutti lo fermavano, tutti lo conoscevano. Tutti lo ammiravano. Era il letterato, l’autore di Fiesta, il cacciatore, colui che aveva attraversato indenne ben due Guerre Mondiali. L’uomo che era scampato miracolosamente a due incidenti aerei. Uno status legittimato da una variegata corte dei miracoli, sempre più numerosa e invadente, l’invadenza era proporzionale all’aumento della fama, che non lo mollava mai. Una banda allargata di cui facevano parte in ordine sparso amici, conoscenti, esponenti del mundillo taurino, aspiranti scrittori, grandi bevitori, improbabili sosia, giovani signorine e opportunisti di dubbia provenienza, tutti lestissimi a recitare la parte dell’amico o consigliori dell’anziano letterato. I più scaltri non esitarono a prendere anche qualche appunto su quell’ultima gloriosa stagione hemingwayana. Note poi riversate anni dopo su carta per cercare di dare un po’ di verve a biografie altrimenti insignificanti dove ci si sarebbe vantati – chi non l’avrebbe fatto? – di aver passato notti intere a ubriacarsi con uno dei più grandi scrittori del Novecento.