Siviglia è l’addio

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Pablo Hermoso de Mendoza con su hijo Guillermo en su despedida de los ruedos, foto di JUAN FLORES

per Matteo Nucci

Poteva cominciare così: “A Puerta de la carne c’era odore di fiori appassiti. Siviglia entrava nell’autunno e il caldo di un’estate eterna soffiava sopra i filari di aranci”. Invece tutto comincia dalla fine, la sera del nostro ritorno a Palermo, in un bar dove il gin tonic aveva un sapore medicinale e io scrivevo sul taccuino: “Più ne vedo e più vorrei essere alla mia prima corrida”. E poi: “Quale sacrificio richiede essere torero, una vita di no alla vita per una forma di vita così estrema che chiede a chiunque attorno a te di vivere la tragedia. Quanta tragedia chiede un torero a una madre, un padre, un figlio, una donna? Tutto passa da lì, e solo attraverso questo contagio di perdita si può fare spazio al duende, la sospensione sacra della fretta, della volgarità, dell’invecchiare del tempo”.

Sul taccuino prendevo questi appunti e, man mano che il sapore medicinale del gin tonic si attenuava per scivolare nel suo destino più monotono, paludoso, la penna sembrava registrare sempre di meno, limitandosi a frasi sempre più brevi, una lista di parole, poi il vuoto della piccola pagina, e in quel vuoto, scavando con la punta, premendo sul bianco, ho disegnato un ellisse, poi un altra, e altre ancora, ho scarabocchiato linee ondulate per spezzare la pulizia delle ellissi, e alla fine, nel vuoto interno, come una bocca aperta, come un occhio semichiuso, ho aggiunto due pupille, due mosche, e una somigliava vagamente a un toro, l’altra a un torero. Il senso di quello che voglio scrivere su Siviglia è tutto qui, e ha a che fare con la perdita e con il silenzio.

Feria di San Miguel 2024. Le corride del ventisette, ventotto e ventinove settembre alla Maestranza sono state corride come molte ne abbiamo viste e come molte ancora ne vedremo, vale a dire corride dimenticabili. Un weekend hollywoodiano, una croisette di figuras che ben si addice alla plaza sivigliana e al tenore dei tempi. Camminando per la città, in più di un’occasione, ho dovuto voltare la testa come Santiago che, dopo il morso del primo squalo, non vuole più guardare il Pesce, perché gli mette tristezza. C’erano in giro, infatti, qua e là, dei manifesti della feria impostati con una tipica grafica da blockbuster, nove busti di toreri, quattro da un lato, quattro dall’altro, uno in alto al centro, e in mezzo c’era il buco oscuro di uno scranno di legno intagliato e borchiato, vuoto, sopra lo scranno la scritta in finto oro “Quién ocupará el TRONO?”.

La logica del trofeo è esplicita nella corrida, ma in questa idea che alla fine delle tre giornate ci sarebbe stato un “vincitore”, addirittura incoronato, mi ha fatto tristezza. Ci ho messo un po’ a capire perché. Certo, l’idea che un rito collettivo venga degradato (anche nella retorica visuale di un manifesto) al rango di un talent show musicale è irritante. Ma c’era altro, ed era più sottile. Ci ho riflettuto nei giorni seguenti e l’idea che mi sono fatto è che a mettermi tristezza era quella volontà di cumulare tre corride diverse come se fossero un unico evento. Pensiamo a un teatro greco. Il venerdì si recita Eschilo, il sabato Sofocle, la domenica Euripide. Chi vince? Edipo, Antigone, Medea? La prospettiva in sé è piuttosto sciocca, ma poi sappiamo che l’immersione empatica e catartica di ogni tragedia è garantita dalle unità aristoteliche di tempo, luogo e azione, una condizione che si ripete identica anche nella corrida.

Allora qual è il punto? Il punto è che la moderna idea sportiva e spettacolare (nel senso di Guy Debord) che ci porta all’ossessione per un vincitore unico non solo è stupida e superficializzante in sé, se applicata alla corrida, ma, in senso assoluto, è anche peggio, perché spezza il cerchio unico, blindato, assoluto di ogni singola corrida, mescolando spazi, tempi e azioni la cui forza è appunto quella di avere una fine certa, adesso, per poter ricominciare domani. La dimensione ciclica della corrida è un residuo rituale arcaico che poco si adatta a un mondo dominato dall’idea di progresso e di evoluzione, a un regime di cronofagia in cui la fretta e l’ansia compulsiva del consumo guidano il nostro quotidiano. Nell’arena, invece, per poco più di due ore, si ha la fortuna e il privilegio di passare dal chronos al kairos, si rallenta, si rallenta e, se il torero e il toro sono abbastanza bravi, il tempo si ferma proprio, in una sospensione magica che ci ricorda che la vita è un soffio, e che fermarsi a guardarla è un gesto eterno.

Questo “entrare fuori” è la scandalosa inattualità della corrida. E, anche senza commentari e sottotitoli, senza tertulias o disquisizioni intellettuali come la mia, chiunque vada ai tori lo sa, lo sa nella pancia. Perché è letteralmente impossibile portare nell’arena le proprie curae, i propri assilli, il proprio tempo ordinario, e assieme fare spazio al vuoto che toro e torero ti scavano dentro. Così, il trionfo di Talavante, che con tre orecchie lunghe come il naso di Pinocchio esce dalla Puerta del Principe, mentre qualcuno gli gridava per sfida “ci rivediamo a Madrid…”, è l’immagine perfetta di questo spezzarsi del cerchio: eccolo il re per un trono di legno, che alla fine è solo una seggiola da ristorante. Ma l’arena, se deve morire, morirà lentamente, perché ha ancora mille antidoti per gli innumerevoli veleni che consumano il suo corpo di Minotauro.

I bambini. Ecco l’antidoto. I ragazzini. Quelli che sono saltati giù dalle gradas e, come una coda di futuro, sono corsi dietro al torero portato in spalla, tutti con delle facce allegre che dicevano solo gioia profonda, non vittoria effimera. Il trionfo era per loro, per il loro entusiasmo preverbale, per la spontaneità senza nome che noi vecchi aficionados abbiamo perduto in una specie di cinismo tecnicizzante. Così, ne sono certo, sono state scritte cronache bellissime e giustissime e verissime su quel fine settimana sivigliano, ma c’è una controcronaca, anche, quella degli antidoti alla decadenza, fatta di gesti laterali, come quando Pablo Hermoso de Mendoza, nella sua despedida, si china da cavallo e abbraccia il figlio Guillermo. Un passaggio di consegne, si potrebbe dire, e invece solo un padre e un figlio nel mistero della vita.

Così, in mezzo a corride dimenticabili e nella tristezza di un pubblico sempre più forzato a desiderare l’eccezione al punto da inventarsela sulla base di corride dimenticabili, la gioia di essere lì, di esserci ancora una volta, era intatta, forse maggiore di tante altre volte. Perfino un Manzanares bolso e sperduto era un miracolo. Perfino un Victoriano del Rio completamente ombroso e imprevedibile era l’ombra di un misterioso bovide preistorico. Perché di questo si tratta. Ci siamo abituati a vivere la corrida con attitudine clinica, autoptica, ma ecco, anche nell’ordinario c’è l’infraordinario, anche nella mediocrità c’è l’eco di un abisso. Per questo, in quei giorni, non avremmo mai barattato l’adesso qui per una corrida perfetta. E non era un accontentarsi, era pienezza. Difficile spiegarlo a chi pensa che il pieno viene dal pieno e non da un vuoto. Ma la corrida è così.

La corrida è come un gesto di cartografia. Come nelle mappe, nella corrida bisognerebbe sempre cercare quello che non c’è, la sua parte invisibile, la quota di mistero e d’immaginario che ogni narrazione velleitaria non solo perde per strada ma annienta. Di fronte alla spietatezza del visibile, parlare troppo è il problema. La parola dà l’illusione di avvicinare, ma irrimediabilmente allontana. C’è un momento nell’amplesso in cui si deve tacere, si devono chiudere gli occhi, lo diceva anche de Sade, e noi aficionados, pieni di nomi di passi e di anatomie e di aggettivi, abbiamo dimenticato il potere silenzioso e violento dei verbi. Ecco perché Siviglia è l’addio. Perché dovremmo dire addio a un’adultità intellettuale che ci rende orgogliosi e sterili. Perché dovremmo tornare ragazzini senza perdere il disincanto, ritrovare la disposizione a cogliere la freschezza senza ignorare il deserto. Eravamo vecchi e felici, insomma. Eravamo giovani.

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